Pagina:Opere (Chiabrera).djvu/29

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16 poesie

     Di fumo empiesse, e di sudor Vulcano,
     Quando temprare infra’ Ciclopi il vide
     L'usbergo celebrato al gran Pelide.
Tal ha cosparto di fulminei rai
     Scelto scudo per le salda difesa;
     Sì nella sacra impresa
     Contro superbi quasi turbo andrai,
     Che suona da lontan su rigid'Alpe,
     O mar che atroce inonda Abila, e Calpe.
Come scorgendo grandinose i grembi
     L’Iliadi ornar la region stellata
     Con destra alta infocata
     Fulmina Giove adunator di nembi,
     E fece Olimpo, o di Tifeo sul fianco,
     E ciascun'alma di terror vien manco.
Tal per la Fé che in Vatican s'adora,
     Feroce avventerai folgori, e tuoni;
     Ed io fra danze e suoni,
     Inebbriato il sen d’onda canora,
     Vestirò piume a celebrar l'assalto,
     Ne darò nomo al mar, volando in alto.


XVII

per lo medesimo.


Se dell’Indegno acquisto
     Sorrise d'Oriente il popol crudo,
     E ’l buon gregge di Cristo
     Giacque di speme e di valore Ignudo;
     Ecco che per la ria superbia doma
     Rasserenati la fronte Italia, e Roma.
Se alzar gli empj Giganti
     Un tempo al Ciel l'altere corna, al fine
     Di folgori sonanti
     Giacquer trofeo tra incendj o tra ruine;
     E cadde fulminata empia Babelle
     Allor che più vicin mirò le stelle.
Sembrava al vasto Regno
     Termine angusto ornai l'Istro, e l'arene;
     Nuovo Titano a sdegno
     Già recarsi parca palme terrene:
     Posto in obblio, qual disdegnoso il Cielo
     Serbi all’alte vendette orribil telo.
Spiega di penna d’oro
     Melpomene cortese ala veloce;
     E in suon lieto e canoro
     Per l'Italiche ville alza la voce;
     Risvegli ornai negli agghiacciati cori
     Il nobil canto tuo guerrieri ardori.
Alza l'umido ciglio,
     Alma Esperia, d’Eroi madre feconda,
     Di Cosmo armato il figlio
     Mira dell'Istro in sulla gelid’onda.
     Qual ne’ Regni dell’acque immenso scoglio
     Farsi scudo al furor del Tracio orgoglio.
Per rio successo avverso
     In magnanimo cor Virtù non langue.
     Ma quel di sangue asperso
     Doppia testa e furor terribil angne,
     O qual della gran madre il figlio altero,
     Scorge cadendo ognor più invitto e fero.
D’immortal fiamma ardente
     Fucina è su, su i luminosi campi,
     Ch'alto sonar si sente,
     Con paventoso suoli fra nubi, o lampi,
     Qualor da' bassi Regni aura v’accendo
     Di mortal fasto, e l’ire e i toschi ascende.
Su l’incudi immortali
     Tempran l'armi al gran Dio Steropi e Bronti
     Ivi gli accesi strali
     Prende, e fulmina poi giganti e monti;
     Ivi nell'ire ancor, nè certo invano
     S’arma del mio Signor l’invitta mano.
Quinci per terra sparse
     Vide Strigonia le supèrbe mura,
     Quinci ei nell’arme apparse
     Qual funesto balen fra nube oscura,
     Ch’alluma il mondo, indi saetta e solve
     Ogni pianta, ogni torre in fumo e in polve.
O qual ne' cori infidi
     Sorse terror quel fortunato giorno!
     I paventosi stridi
     Bizanzio udì, non pur le valli intorno,
     E fin nell’alta reggia al suo gran nome
     Del gran Tiranno inorridir le chiome.
Segui; a mortai spavento
     Lungi non fu giammai ruiua in danno;
     Io di nobil concento
     Addolcirò de' bei sudor l'affanno,
     Io della palma tua con le sacr’onde
     Cultor canoro eternerò lo fronde.


XVIII

PER NICCOLA ORSINO

conte di pitigliano generale de'veneziani

Contro la Lega di Cambrai,

difese Padova dall'Imperadore


Certo è, che a sua gran pena
     L’uom naufragante, peregrin del Mondo,
     Spesso gira sua vita a vela piena
     Là’ve sirte d’error l’onde inarena.
     E spesso ove è di guai maggior profondo
     Gitta l’ancora al fondo.
Non va lunge dal vero
     Questo mio biasimo degli umani ingegni,
     Che su per Cirra, almo di Febo impero,
     Menzogna d'orme non segnò sentiero;
     E so ne fan con mille casi indegni
     E Regnatori, e Regni.
Dovea fronte lucente,
     Ma come ogni altra al fin preda di Motte,
     Argo far trista, cd 11 ione ardente.
     A qual piaggia d'april mieter la gente;
     Oh, non si piange ancora Ettorre il forte?
     Suo figlio? e sua consorte?
Se vii frutto non era,
     D’Assaraco la stirpe era beata.
     E di gioja maggior viveva altera
     Se meno era la Grecia allor guerriera;
     Ma premio pose a sè medesma armata
     Una chioma dorata.
Or se, come in foresta
     Arma lungo digiun belva africana,
     Muove orgoglio tra gli uomini tempesta;
     Sicché ferro la terra empio funesta;