Qual diletto tu trovi infra gli uccelli;
Ergasto io volentieri
Rimiro Gelopea,
Perchè son fra seguaci dell’Amore,
Tu dolcemente perdi
Il tempo della vita, perseguendo
Il volo degli augelli.
Altri ben volentieri
S’affanna, travagliando
Per arricchir con zappe, e con aratri.
Ecci alcun, che si gode
D’andar peregrinando, e non paventa
Le fortune del mare;
E così vien, ch’ognuno
È tratto dalla sua propria vaghezza;
Ma perchè tu fai pompa
Con le parole tue di quei diletti,
A’ quali tu m’inviti,
Io così ti vò dire:
Nè conviti, nè canti,
Nè dolcezza d’altrui ragionamento,
Ne sereno di cielo
È tanto prezïoso,
Che si debba cangiar con uno sguardo
Della mia Gelopea.
Che cerchi più bell’Alba?
Qual’oro ebbe mai l’Alba,
Che non perdesse appresso
I biondissimi crini
Di questa pastorella?
Ebbe mai l’Alba rose,
Ebbe mai neve, o gigli
Sulle guancie, e sul seno,
Che non fossero secchi pareggiati
All’amoroso aprile,
Ch’ella porta nel volto?
Quando vedesti in cielo
Un seren così puro
Che posto al paragone
Della sua chiara fronte
Non rimanesse oscuro?
Giungi poi che sovente
Il ciel non è sereno,
E l’Aurora ha le guancie nubilose;
Ma sempre Gelopea
E chiara, ed è lucente.
A che dunque favelli
Della beltà dell’Alba
Per farmi disprezzare una bellezza
Bella via più che l’Alba?
Adunque per innanzi
Taci queste bellezze, e taci ancora
I tuoi fischi, i tuoi canti
Del nostro Alfesibeo,
Del nostro buon Galicio;
Ed i dolci diporti
Del mio gentil Segaro;
Che s’una sola volta
Tu senti Gelopea, che si trastulli
Col suo merlo; Oh cosa veramente
D’infinito piacere!
Ella per sua vaghezza
Con la sua bella voce
Se l’ammaestra, ed or gli va cantando
La canzone, Amarillide, deh vieni;
Or quella che comincia,
Vaga su spina ascosa;
E l’angelletto intento a’ belli modi
Di quella bella voce le risponde,
Vaga su spina ascosa;
Ella per vezzeggiarlo
Qui gli porge la punta del bel dito;
E l’augellin vezzoso,
Dibattendo le piume
S’avventa a quel bel dito per maniera
Che diresti di certo,
Che voglia dargli morsi, ma beato
Poscia gli dona bacio;
Or io per mille volte
Usato a questi canti,
Sai quanto stimo i canti di Galicio?
Quanto se fosser pianti.
Erg. Tu così fattamente
Parli di Gelopea,
Che s’io veduta non l’avessi, certo
Esser la crederei cosa divina,
E pure quante volte
Io l’ho veduta, tante
Ho visto nel suo viso la bellezza,
Che vedo tutto il giorno
Nel viso delle donne;
Cosa per verità da non morirne,
Per non esser a PALLA sì VICINA
Quanto tu miser credi;
Si che temo assoi spesso,
Ch’ella non t’abbia fatto alcuno incanto;
Io odo raccontarsi
Istorie spaventose di costoro,
Che voi chiamate amiche,
Ed io le chiamo peste
Di nostra giovinezza,
Ma pur che fine speri al tuo penare?
Fil. Il fin delle mie pene
Secondo me sarà, quando io sia fatto
Signor di sue bellezze.
Erg. Secondo me signore
Sarai di sue bellezze, o se la sposi,
O se per altro modo tu le godi.
Fil. Goderle, e non sposarla
E fuor di ogni speranza,
E contra il mio volere.
Erg. Dunque devi pregare,
E devi tener modi,
Ch’essa teco si sposi.
Fil. Io non ho risparmiate
Ergasto le preghiere,
Ma mia bassa fortuna mi contrasta,
Suo padre éssi fermato
Di darla ad un bifolco
Padron di molti armenti,
E sdegna un pastorello
Di così poche greggie.
Erg. E mi pesa annunziarti,
Che per queste cagioni
Ella fia di colui;
Che s’egli la desira, ed ha fortuna,
Disiata da loro,
Chi potrà disturbar le costor nozze.
Fil. Le potrà disturbare
Ciò che pur fino a qui l’ha disturbate,
Gelopea non consente.
Erg. Eh speranze di vetro!