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del chiabrera 355

tanto ammirabili che non lasciano luogo a contesa.

Orz. Si discorro per discernere la verità, e per innalzare alla cima della perfezione l’opera; e poco costa simigliante dottrina.

Ger. Rimane che io vi faccia due parole intorno alle canzoni con strofe ed antistrofe ed epodo. Che di questa guisa di componimenti si vegga segno appresso gli antichi Toscani, l’Orzalesi ieri, o Cicognino, ve ne fece ben certo; io vi dico ora, che non indarno i Greci ne furono vaghi, ed il gran sapere di quegli scrittori ci dee persuadere che con ragione in tal modo canzonassero; ed alcuni argomenti ne leggiamo appresso i chiosatori di Pindaro. Ma io ritorno alla sperienza. in Roma i maestri di musica ci hanno fatto sentire una strofe cantante con un’aria, e l’antistrofe pure con la medesima aria: ma quando l’uditore aspettava che di nuovo si ritornasse all’aria stessa la terza volta, egli si ritrovava ingannato, perciocchè udiva un’aria novella formata sopra l’epodo; ed allo inganno maravigliosamente si dilettava, ed a ragione, coociossiachè la varietà è quasi sempre compagna del diletto.

Cic. Non pertanto noi veggiamo che i Latini non usarono salvo la strofe, e l’antistrofe: ma dell’epodo essi non fecero conto.

Ger. È come voi dite: ma la Grecia parvi vile maestra?

Cic. Maestra onoratissima e sovrana; e non altra cosa parve agli uomini latini, i quali con armi vinsero i greci in battaglia, ma nelle scuole contra essi furono perditori.

Ger. Ho da fare una parola intorno a lasciare nella strofe versi senza rima. Che si siano lasciati dagli Antichi, ieri, o Cicognino, l’Orzalesi ve ne fece certo: io ora dovrei provarvi, che il ciò fare sia senza biasimo; ed averei non poche cose da dirvi, ma io voglio epitomare; e però affermo, che chiunque lascia nelle canzoni alcun verso senza rima dee molto bene por mente che ciò si faccia senza danno della richiesta soavità; del rimanente io stimo, ed ho per costante, che dall’obbligo delle rime sia il poeta costretto a dire delle cose a suo mal grado; onde alcuna volta erra, e gli errori suoi sono di più maniere; e mi ricordo, che Il Vecchietti, con esso lo Strozzi, nella villa di Fiesole ne trattarono pienamente, nè io voglio porvi la bocca. Da loro potrete un giorno ascoltare loro opinione intorno a ciò.

Orz. Forse alle voglie dell’ingegno omai sarassi soddisfallo: rimane che si pensi all’appetito del corpo. Il sole ci lascia; la torre e l’ombra ci chiama colassù a ricrearci; io lodo che si saglia.

Cic. Sagliamo. il vino già è nella neve.

Orz. Mi ricordo leggere un epigramma di Simonide nel quale si divieta dare agli amici a bere il vino caldo.

Cic. Io accetto Simonide per maestro, non meno di bere che di poetare.

Ger. Oggidì molti si accosteranno alla vostra opinione.

IL BAMBERINI

OVVERO

DEGLI ARDIMENTI DEL VERSEGGIARE


Postumo, e Domenico Bamberini.

B. Postumo, volete voi farmi un piacere?

P. Di buon grado.

B. Io sono in dubbio di alcune cose leggiere ma gentili intorno al poetare volgare o italiano o toscano o fiorentino che vogliamo chiamarlo, e non sapendo per me chiarirmi, pregovi a dire sopra ciò che cosa io debba credere; edio non vorrei da voi ragione delle vostre opinioni, ma il semplice vostro giudizio, ed in somma siate il mio Pitagora.

P. Con esso voi il posso essere, però che voi volete che io il sia, ma rimarrommi Pitagora di un solo scolare.

B. Facciamo fine, e piacciavi di rispondere.

P. Chiedete.

B. È egli errore in una canzone ritornare più di una volta alla medesima rima?

P. Deh per grazia, siate maestro del vostro Pitagora ed insegnatemi che cosa sia rima.

B. Parole terminate con le stesse lettere vocali, e consonanti allegate in fine del verso.

P. Perchè fu già preso a così verseggiare rimato?

B. Per dare diletto all’orecchia di chi ascolta; io così credo.

P. Se dunque l’orecchia non prendesse così fatto diletto, la rima sarebbe indarno?

B. Indarno.

P. Ma prenderebbe, ella quel diletto quando non sentisse e non si accorgesse di sentire la rima?

B. Per mia stima, nol prenderebbe.

P. Dunque rimandosi per rispetto dell’orecchio, nulla monta che in canzoni siano più rime, se elle dal lettore non sono osservate tanto o quanto.

B. Voi conchiudete, se io ben comprendo, che si possa replicare la rima sì veramente che l’uditore non se n’offenda; ma ciò come avverrà ?

P. Ponendole fra loro distanti sì che dal lettore sia dimenticata la prima allora che si abbatte nella seconda. Ditemi per vostra fè, se per entro il corpo d’un verso vien posta parola che rimi, sentite voi condennarsi per ciò il verseggiare?

P. Direstemi voi la ragione?

B. Forse è perciocchè il fine del verso è la parte maggiore ascoltata, ed all’avanzo non si attende cosi fortemente.

P. Egli, cioè dire, fassi conto che allora non ci sia la rima, perocchè l’orecchio non s’accorge che ella vi sia; ora, compiacendovi e favellando pitagoricamente, io non affermo che