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del chiabrera 369

poli, diletto a Principi, ed il reame di Francia, ove fece soggiorno non breve, l’ammirò non poco, ed è vero, che ivi fu gradito da’ Re medesimi: alfine ritornando in Italia vago di rivedere le case paterne e la patria, vi si condusse, e fra le braccia de’ parenti, e degli amici fornì suoi giorni. Fu con molto splendore sepolto, e con tristezza lagrimato; e per molte maniere mostrossi di sua persona desiderio e rimembranza. Tuttavia possiamo dire veracemente, che il nostro Parnaso non ha lauri abbastanza per coronarlo, e che la sua gloria non ha mestiere alcuno di marmi. Le doti, delle quali fornillo natura, onde egli diede battaglia alla morte, e le porte si aperse all’immortalità, gli fanno cotale sepolcro, che le spoglie non men vaghe che ricche di Signori grandissimi rimangono vile cosa, e solamente segno alle popolari ammirazioni.1



Io non ho pel’addietro co’ serenissimi Farnesi avuto cagione di chiamarmi servidore per modo che, scrivendo alcuna cosa del duca Alessandro, ad altri paresse che io parte volessi sciogliere degli obblighi miei; e ciò dico recandomelo a disavventura, anzi che no. Ma non posso darmi ad intendere in qual modo anima cattolicamente cristiana, solo s’ella non vive affatto schifa dello scrivere, o non sia senza alcuno talento di ragionare, possa tenersi in silenzio, rimembrando di tal campione, il quale da prima cinse la spada per l’onore della Chiesa di Roma, nè mai se la discinse pure perciò. Nemmeno io sono per la Dio mercede sorpreso da sì sciocca alterezza, che io reputi l’ingegno mio bastante a degnamente rappresentare al mondo un cavaliere adornato di titoli non comparabili; e chiunque ha di me alcuna contezza il si crederà; ma io non posso indivinare, quale sii la persona per nascimento italiana, ed eletta a spirare fra queste aure gentili, che non spinga volentieri la voce, e di buon grado non scioglia la lingua onorando il nome di quel guerriero, per cui Italia eresse i trionfi, e fa maggiore il suo numero degli eroi. Di qui parmi non essere in tutto disconsigliato, e spero di non dovere incontrar biasimo del mio pensamento: bene mi stimerei mal consigliato entrando in isperanza di tutte raccontare le azioni innumerabili di questo signore, e di tutte illustrarle colle mie parole; ed allora confesserei di farmi simigliante allo sciocco boschiere, il quale con una accetta prendesse ad atterrare tutti gli alberi di una grandissima selva. Ma non prendendone io a comporre la storia, o a compilare la vita, sceglierò le cime della sua virtù dando diletto con maraviglia d’immenso valore, e pagherò ragionevole tributo a meriti non comparabili. Laonde avendo egli tratto a fine grandissime imprese, parte con vigor di senno e parte con forza d’armi, io proverommi con due carriere trascorrere lo spazio delle sue lodi, e ciò sarà additando la prudenza e la fortezza con le quali egli volossene al seggio dell’umana immortalità.

E veramente se alla memoria vogliamo ritornare lo stato già delle Fiandre, e di quante fiamme e per quante cagioni accese elle ne ardessero, non può stimarsi, salvo infinito consiglio, avere potuto raffrenare gli sdegni, e rintuzzare le speranze e sollevare le disperazioni e moderare le brame di tanti popoli ingannati e di tanti duci ingannatori. Perciocchè dipartendosi Filippo II e ritornandosene alle Spagne, lasciò nelle Fiandre in sua vece Margarita d’Austria sua sorella, ed ivi un molto grande ministro Antonio Perenotto. Verso costui era malamente disposto Guglielmo Nassao principe d’Orange, ed altri chiari per titoli e per nobiltà: mal disposto era l’animo di costoro per vederlosi molto sublimato, erano non meno annoiati, perocchè le spese, nella guerra aveano fatto grandi e nella pace provavano le mercedi molto leggiere. Percossi da questi stimoli si diedero a maestrevolmente sommovere i popoli, e farli lontani dalla Chiesa di Roma, per farli quindi rubellare al loro re, ed in piccolo tempo con sottigliezza di persuasiva adempierono i loro desiderj. L’uomo reo del peccato è tratto a tuttavia peccare e traboccasi in fondo, creata che fu l’eresia e la ribellione, loro si feciono incontra leggi ed armi, e ciascuna delle parti ostinandosi, in un momento eccitossi la guerra. Fu mandato a maneggiarla Fernando di Toledo duca d’Alva con bastevole esercito, costui adoperò secondo suo senno, ma non pertanto ogni miseria videsi sorgere in quelle provincie: tribunali severi, sentenze mortali, battaglie sul campo, e per offesa e per difesa tutti i regni dappresso sorsero fieramente. Provando che la acerbezza contra loro usatasi arrabbiava i Fiamenghi, provide il re Filippo di governare d’ingegno più mansueto, e fu questi Luigi Rechesense gran commendatore di Cartiglia: sotto costui si perdette Alidelburgo, s’ammottinarono i terzi vecchi degli Spagnuoli dopo la vittoria di Mochi, e si disperse l’armata dappresso Lillò. Alfine si morì il re Filippo; lasciò che il consiglio di Stato prendesse il governo; allora, riacquistata Terisca in Zelanda, gli Spagnuoli si alborottarono in Alosto, di donde venne cagione, che il consiglio armasse incontra loro, e di cui tutti gli Spagnuoli si unirono contra il consiglio, e si vedea non pure perduta la fede al re, ma ogni concordia, ed anco la speranza d’ogni rimedio, ed avvenne, che Anversa fu sforzata e messa a rubba, e di qui i Fiamenghi, per l’odio contra Spagnuoli, si giunsero col principe d’Orange. In questo tempo venne don Gio. d’Austria fratello del re Filippo, ed egli, per soddisfare a’ paesani, mandò gli Spagnuoli e gli altri suoi stranieri soldati fuori di Fiandra, e trasse dal castello di

chiabrera, testi ec. 47
  1. Il Marini ebbe grande ingegno, e somma fortuna, ma ne abusò; la poesia si risente per lui di una indecente laidezza, che la fa detestevole alla Religione non meno che alla purità del costume, e di uno stile men cauto, che diè poi luogo alle tante e sì mostruose metafore onde fu deturpato il secolo decimosettimo.
    L’Edit.