fessò ne’ suoi versi, che lavandosi di vino egli
addormentava ogni noja. Ed Alceo ad alta voce
cantò: che a disgombrare le pioggie e lo tempeste del verno, fa mestiere di mescere con larga mano. Ed il grandissimo Pindaro disse che il brindare con rugiada d’uva spumante dentro una coppa d'oro, onorava tutto il convito delle nozze. Ma non pertanto il modo è richiesto, e vuolsi fuggire vergogna, ed è da rammentarsi la battaglia de’ Centauri e de' Lapiti accesa per l’ardore del vino. Ma io ormai getto l’ancora, e diro che dall'ubbriacarsi è buono consiglio prender guardia, perciocché l’ubriachezza è colpa che ci fa odiosi a Dio, e però dobbiamo ricorrere alla Temperanza, ed essa ci metterà per lo diritto sentiero con la scorta della Sobrietà. Ho favellato abbastanza di quel diletto, il quale fassi agli uomini sentire col leccamento del gargatolo. Ora è da dire del diletto il quale sentiamo col toccamento di lutto il corpo negli amorosi abbracciamenti. In sì fatti diletti si può, e suolsi peccare; e qui non è da farsi lungo sermone, ma è da ricorrere alla Temperanza, la quale con pochi ammaestramenti ci fa lodevoli. Non potendo, Signori, il particolar uomo conservarsi senza nutrimento, ella gliele concede, finché il vivere onestamente si conservi: e non potendo i particolari uomini perpetuamente durare, acciocché nella specie almeno non vengano manco, consente l'uso della femmina, e fuori di questo proponimento non lascia trascorrere l’appetito. Ma la bellezza ed il pregio della Temperanza risplenderà, se pigliamo a riguardate la sozzura e la viltà degli estremi fra’ quali ella risiede che già non troverebbe scusa Goffredo, siccome colui gli appone, nella terribile arsura, onde si distruggeva l’esercito, se egli si fosse adagiato a mensa mescolando l’onda fresca al vin di Creta. E ne la farebbe condannare l’atto egregio di Davitte, quando gli fece rifiuto dell'acqua attinta della cisterna di Bettelemme, e da lui molto desiderata; e noi ben possiamo dirittamente affermare, che non da eroi, ma da vili uomini fecero quei cavalieri, i quali si resero alla bella delle reine infedeli, ed arsero ai raggi delle femmine saracine. Ed al Conte di Anglante avvenne secondo il diritto, quando egli fu scemo del senno, e forsennato errossene per lontanissime contrade. Nè maggior gloria acquistassi il figliuolo di Anione; perciocché egli abbandonasse il suo signore, e lasciasse Parigi in pericolo, e cangiasse la patria, e la difesa della religione agli occhi ed alle sembianze di Angelica; nè meno oscurò sua grandezza Tancredi, il quale per femmina non battezzata lasciossi da mal desiderio privare di belle virtù, e mal forte a sofferire il perduto diletto sforzossi di perdere la vita similmente. E Rinaldo non lasciò esempio da seguitarsi ai principi Estensi, che per quanto leggiamo non meno godea nel labirinto di Armida, che sotto le mura di Gerusalemme; ed il giardino di quella perfida maga non gli era men caro, che tutti i cipressi di monte Sionne. Ma se quei baroni non commisero questi falli, siccome dobbiamo darci ad intendere, infamia è dei poeti, i quali contro ragione e contro verità gli infamarono; e certamente di qui non viene loro la ghirlanda del lauro. Oh sono pure ingegni ammirabili? ed io affermo che perciò sono degni di più riprendersi, perché la loro somma eccellenza traggo i lettori ad errare; e possono esser forniti d’intelletto sovrano, siccome io
credo, ma poeti ben costumati non sono in ciò. Ne noi dobbiamo mettere il piede nella loro scuola. Bella cosa per certo udir Ruggiero starsi lungo un ruscelletto vestito di spoglie ricamate per mano della concubina, e con gemmato monile sul petto, e tutto cosparso di odori sommergersi col pensiero nel diletto delle godute bellezze, né ad altro pensare; e dimorassesi agramente a suo talento tra i pericoli della guerra; ed era più bella cosa vedere Rinaldo colà per un nuovo mondo specchiarsi negli occhi della perfida incantatrice: ed a lei apprestare lo specchio per affinare le bellezze, onde ella lo disonorava. Questi esempi, Signori, mettonmi nella memoria ciò che di somigliante io, negli anni miei giovanili ho veduto, peregriandò per varj paesi. E dirollo non per mal dire, che io non ne ho vaghezza, nè per emendare, che io non ne ho possanza, ma per tirare il ragionamento a fine, e vagliano le parole quanto elle possono valere. Dico dunque aver veduto uomini canuti, che ad onta degli anni vogliono apparire con negro pelo, e rubellando alle insegne della grave età, pigliano soldo fra schiere lascive; ed ho veduto giovani tutti aspersi e molli di odori, nati più da lontano che l’Arabia non è, mostrarsi con manti trapunti listarianiente e bizzarramente di varj colori. Mostrano le dita coperti di pelle addobbata, e le maniche roversciate oltra il gomito, quasi aspirando a vanto di candidezza. Sui calzari fioriscono rose di seta, ed alle orecchie traforate appendonsi fiocchi di perle. Vassi con colli inlaidati di amito, e con le tempie caricate di ricciaja; e voglia Dio non le guancie sian tinte di puttanesco belletto. I padri e le madri guarniscono di ornamenti femminili i fanciulletti in tempo, che essi per gli anni possono venire adoperati da femmina; e poi cercasi per le piazze, i ciurmatori recano cose strane da mirare? E che cosa più strana non con gli occhi mirare, ma con la niente pensare si può? A ragione dunque giace l’Italia come scaffa di fiume, esposta ad ogni varco di stranieri, e gli Italiani sono quasi spiche sull’aja battuti dall’orgoglio barbarico. Io veramente qui affermo l’intrinseco mio conforto, veggendo le nostre riviere e la maestra città non macchiata di questa pece, e se non tersa affatto, almeno macchiatene leggiermente. E non dobbiamo vergognarsi, Signori, di essere nati tra scogli, ed avvezzi a duramente menare la vita, se già non è, nè fu vergogna per noi, che nostre armate giungessero a’ confini del Mediterraneo, e varcassero gli spazj non misurabili dell’Oceano. Sparta non si mantenne settecento anni contra nemici con la forza delle delizie; ed i Romani quando metteano il mondo a giogo non