Pagina:Opere (Chiabrera).djvu/7

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VI

fluenze insieme all’altre miserie ebbe l’Italia a gemere ed a vergognarsi della depravazione del gusto, condotta dal corrompimento dell’indole nazionale, sorsero pur sempre in Italia filosofi e poeti, letterati ed artisti degni della patria di Tommaso d’Aquino e dell’Alighieri, del Petrarca e di Leonardo. Solennissimo fatto è codesto e tale, per nostro avviso, da meritare che vi pongano mente gli Italiani tutti, e quanti sono equi giudici della nostra nazione, perocchè prova, che la sventura ci aveva oppressi, ma non prostrati nè avviliti.

Nè già solo questi privilegiati ingegni s’adoperarono a serbare inviolato l'onore della patria, ma intesero benanco a confortarla e sollevarla nelle sue sciagure. Nel che specialmente si segnalarono alcuni de’ poeti del secolo XVII, i quali provarono col fatto, come fosse loro scolpita nel petto quella sentenza, omai resa popolare e chiara ad ogni intelletto, che nullo è il ministero poetico; ove non valga a suscitare nobili ed operativi sentimenti, rivolti all’utile morale e civile delle contemporanee generazioni. Fra essi noi pensiamo che vadano distinti Gabriello Chiabrera e Fulvio Testi, i quali poco distanti l’un dall’altro di tempo, parvero concordi in questo pensiero di far servire la poesia ad alimentare tutti i sentimenti, che meglio potevano giovare a scuotere gli Italiani dal loro anneghittimento, od a consolarli in mezzo all’indecoroso, ma non volontario ozio in cui languivano. Diversi l’uno dall’altro d’indole e di stato, posti in diverse circostanze, diversi d’ingegno, d’animo, di stile; entrambi però siccome inspirati da un medesimo sentimento, tolsero a cantare ne lor versi le antiche e recenti glorie della patria, rendendo omaggio a tutte le virtù cittadine, e facendo segno alla generosa loro ira la codardia; l’ossequio servile; la volgare ambizione, la cortigianesca piacenteria e tutto ciò che d’ignobile ravvisavano ne’ costumi ‘e nelle inclinazioni dell’età loro. Ma pur troppo essi non riuscirono a quel generoso fine a cui aspiravano; che anzi l’ignavia de’ tempi tarpò le ali agli arditi lor voli, per modo che non poterono nè del tutto separarsi dalla moltitudine, nè sdebitarsi intieramente di quella missione, a cui il loro genio li chiamava.

E ciò sembraci che dir si possa principalmente del Chiabrera, il quale ben a ragione scrivea di sè stesso, che seguiva Cristoforo Colombo suo concittadino; e che volea trovar nuovo mondo od affogare; perocchè ad emergere creatore d’una nuova poesia, non gli mancarono certo nè vigore, nè ingegno: ben gli mancarono i tempi, i quali,