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Panche di scuola 41

no amico; la signora Gemma, toccàndomi l’altra, promette di pettinarmi ella stessa: tutti e due dilùviano in tanti punti di esclamazione, in tante lodi che sembra non àbbiano, se non per me, edificato il loro collegio. Proprio come il Dio delle scolette trapuntò il cielo di fiamme a passatempo dell’uomo e seminò i pòpoli per quello di pochi frustamattoni, i rè.

Ma — quando il nostro becco fu molle ed li Proverbio aridì — desideràndolo babbo, ci alzammo a visitare la fàbbrica. E lì, allora, vedemmo una grande cucina col suo cuochetto in bianco, con la piatterìa e il rame in cui dava il sole, con un odore di caffè tòsto, un borbottamento nel caldaio; e poi, vedemmo il lungo mangiatorio dai muri pitturati a convenzionali paesaggi (giardino con lago, cigni e tempietto; bosco con eremita....) dalla volta azzurra, a nuvoline, ròndini e due lumiere appiccàtevi — più — con sopra le finestre e le porte, dipinti a combutta, libri, calamài, cocòmeri penne di oca e pezzi di formaggio; in sèguito, la librerìa, la pollerìa, il gabinetto di fisica, le scuole, il dormitorio... In una parola tutto.

Quanto a me, cercavo attentamente i luoghi del castigo. Mio padre, mi ricordavo benissimo, me li avèa descritti, quando non esisteva peranco la probabilità ch’io li potessi temere, come degli orrìbili buchi. Li cercavo ora dunque e, avvisando, nel traversare un androne, ad una lunga fila di porticine, chiesi al direttore, se i famosi in-pace del collegio èrano quelli.

Egli sorrise; babbo si tenne la pancia.

Sì, sono — fece quest’ùltimo.

-Vero? — E vènnemi una malia voglia di curiosarvi. Ne diserrài uno.... Sesese.... ciaach... che fumo! che puzza di tabacco pipato!