Pagina:Opere (Dossi) II.djvu/19

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xiv interludio

Dossi continuava coll’accusarsi in quella Diffida della forma data al suo libro, come troppo togata, quasicchè il rivoluzionario fantastico linguista de L’Altrieri e dell’Alberto Pisani fosse divenuto un arcaico: le persone della sua Colonia non parlano il linguaggio ch’era da attendersi da quei delinquenti volgari nella loro vita reale, ne parlano uno all’aspetto diverso, non solo perchè portati dall’autore nel campo dell’utopia, bensì anche perchè l’arte sua non ha voluto essere qui solo contemporanea e nazionale, ma universa e permanente.

E ch’egli vi sia riuscito diranno ora i nuovi, come hanno detto i primi ed i secondi lettori.

L’uomo uscirà dunque da questo rinnovato esame più aureolato che mai. La parte invece del volume in cui può sembrare, agli occhi di certi lettori, esperti e scettici navigatori della vita, che all’uomo lo scrittore faccia torto, è la terza, in cui sono da questo narrati gli Amori di quello: scrittore, qua, più che mai delizioso anche per gli avversarii preconcetti, ma uomo così primitivo, alla francescana, alla giottesca, così ingenuo, così solitario, da far sorridere, se non ridere addirittura, chi — ed è la maggioranza dei mortali — considera e pratica l’amore come una disciplina, con una disciplina di cui si direbbe che Carlo Dossi non abbia mai avuto la più lontana idea, o almeno il più superficiale istintivo desiderio.

Ma si rassicurino quei navigati lettori, pensando che, astraendo pure dal resto, Alberto Pisani ha saputo poi, e voluto, procrear fior di figlioli. Sicchè, questi Amori, cerebrali direi, se non fossero una finezza squisita di tutto quanto lo spirito, possono venire considerati anche dai più positivi senza la superiorità sprezzante degli uomini pratici verso