Pagina:Opere (Dossi) II.djvu/27

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6 il regno dei cieli


Ma a che la città si versa tutta fuor di sè stessa? incontro a chi mareggia la folla agitante gioiosa rami d’alloro e di pacìfero olivo? Il potentissimo, l’invincìbile, il terrìbile giunge, un di que’ rei di delitti comuni, che, onesti per il successo, dìconsi conquistatori, un di quei geni del male pei quali il nome di madre diventa lacrimèvole nome. Ei giunge vittorioso da guerra in cui non fe’ all’uccìdere fine, se non per inopia di vite, nè al rapire, se non per quella di preda.

Ma il sole par non risplenda su lui. Già vìola la cupidità sua i nuovi imposti confini. E invano il lievissimo volgo gli applaude, grato quasi che le ossa de’ cari suoi lontanamente bianchèggino in terra ch’esso non bacierà mai. Raddoppiando i soggetti, il tiranno addoppiossi i nemici. E ai consci occhi di lui appaiono, non i drappi festosi, ma le empie memoranti gramaglie, e le mille sue stàtue già minìstrano armi alla vendetta dei pòpoli e precipitano gli èmbrici da quelle case da cui piòvono fiori. Cèsare diffida la punta della sua stessa spada. O infelice colui che teme della propria memoria!

— No, no, — esclama, inorridendo, tale che scorse nelle rughe e di Creso e di Cèsare la infelicità — non io bramo ricchezza, non io potenza — pene, non premi — e volge cupidamente lo sguardo in uno di quelli eletti ad argomento o a discolpa deirumana superbia, i quali, gravi d’anni e di gloria, s’èrgon talvolta, fra la riverenza universale, stàtue a sè stessi.

Ma la sapienza, essa pure, non è che un ma-