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290 | dialoghi dei morti. |
odiarli, per aver anch’essi lo spasimato. Quando poi si è all’aprir del testamento, il figliuolo e la natura, come è giusto, riprendono ogni cosa, e gli spasimati rimangono sciocchi, arruotano i denti, e scoppiano di dispetto.
Tersione. È vero quel che tu dici. Quanto del mio s’ha mangiato Tucrito, che mi pareva sempre dovesse morire: e quand’io lo vedeva, ci gemeva e pigolava come pulcino che esce dell’uovo: e io, i’ mi pensava di metterlo in bara allora allora, e gli mandavo gran doni, per non farmi vincere a carezze dai miei rivali. Per questi pensieri io perdei il sonno, facevo sempre conti e disegni: e questo fu anche una causa a farmi morire, la veglia e i pensieri: ed egli, inghiottitasi tutta l’esca ch’io gli diedi, venne ieri a sepellirmi ridendo.
Plutone. Bene, o Tucrito: vivi lunghissimamente, sempre ricco, sempre ridendoti di costoro: nè prima morrai che non t’avrai mandati innanzi tutti gli adulatori tuoi.
Tersione. Questo piace anche a me, o Plutone; purchè Cariade muoia prima di Tucrito.
Plutone. Stà certo, o Tersione: e Fedone e Melanto e tutti ci verran prima di lui per que’ medesimi tuoi pensieri.
Tersione. Così va bene. Or vivi lunghissimamente, o Tucrito.
7.
Zenofante e Callidemide.
Zenofante. E tu, o Callidemide, come se’ morto? Io, ch’ero parassito di Dinia, empiendomi il sacco sino alla gola, affogai: tu il sai, che eri presente quand’io morii.
Callidemide. V’ero, o Zenofante. Ma il fatto mio è assai strano. Hai conosciuto anche tu il vecchio Tiodoro?
Zenofante. Quel ricco che non ha figliuoli, e al quale tu ti eri cucito a fianco?
Callidemide. Lui: e gli facevo carezze, su la promessa che a morte sua mi farebbe erede. Ma poichè la cosa andava per le