Pagina:Opere di Niccolò Machiavelli VI.djvu/150

Da Wikisource.
130

patria che parlava in modo, che si poteva meglio che alcuna altra accomodare a scrivere in versi, ed in prosa; a che non si potevano accomodare gli altri parlari d’Italia; perchè ciascuno sa, come i Provenzali cominciarono a scrivere in versi; di Provenza ne venne quest’uso in Sicilia, e di Sicilia in Italia; e intra le provincie d’Italia in Toscana, e di tutta Toscana in Firenze, non per altro che per esser la lingua più atta; perchè non per comodità di sito, nè per ingegno, nè per alcuna altra particulare occasione meritò Firenze esser la prima, e procreare questi scrittori, se non per la lingua commoda a prendere simile disciplina; il che non era nell’altre città. E che sia vero, si vede in questi tempi assai Ferraresi, Napoletani, Vicentini e Viniziani, che scrivono bene e hanno ingegni attissimi allo scrivere; il che non potevano far prima che tu, il Petrarca e il Boccaccio, avessi scritto. Perchè a volere ch’e’ venissino a questo grado, disaiutandoli la lingua patria, era necessario ch’e’ fussi prima alcuno il quale, con lo esemplo suo, insegnassi com’egli avessino a dimenticare quella lor naturale barbaria nella quale la patria lingua li sommergeva. Concludesi, pertanto, che non c’è lingua che si possa chiamare o comune d’Italia o curiale, perchè tutte quelle che si potessino chiamare così, hanno il fondamento loro dagli scrittori Fiorentini e dalla lingua Fiorentina; alla quale in ogni difetto, come a vero fonte e fondamento loro, è necessario che ricorrino; e non volendo esser veri pertinaci, hanno a confessarla Fiorentina1

Udito che Dante ebbe queste cose, le confessò vere, e si partì, e io mi restai tutto contento, parendomi d’averlo sgannato. Non so già s’io mi sgannerò coloro che sono sì poco conoscitori de’ beneficj, ch’egli hanno avuti dalla nostra patria, che e’ vogliono accomunare con esso lei nella lingua Milano, Vinegia e Romagna, e tutte le bestemmie di Lombardia.

  1. Questa quistione sopra il nome della Lingua nostra è trattata ampiamente, e giudiziosamente anche da Alberto Lollio nell’Orazione in lode della lingua Toscana.