Pagina:Opere di Procopio di Cesarea, Tomo I.djvu/112

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nocenti. Niun pensiero fu mai in lui di conservare le cose stabilite: sempre cercava cose nuove; e dirò tutto in una parola: era suo genio di appestare ogni buona cosa. Pochi furono gli uomini, che potessero o fuggire non intaccatine, o intaccatine guarire da quella tremenda pestilenza, che negli antecedenti libri dicemmo essersi sparsa per quasi tutto l’universo mondo, in paragone di quelli che ne rimasero vittima. Ma da Giustiniano niuno tra tutti i Romani scampò, il quale come malanno apposta piovuto dal cielo, nessuno lasciò intatto: chè altri iniquamente levò di mezzo; altri, lasciando loro la vita, gittò in tal povertà, che s’ebbero a desiderare piuttosto ogni più crudele supplizio: tanto sentivansi miseri! ad altri non perdonò nè le sostanze, nè la vita. Nè bastò a lui l’aver messo sossopra il romano Imperio, chè volse le forze a soggiogare l’Africa, e l’Italia, onde trarre codeste provincie nella ruina stessa, in cui messe avea le altre a lui già soggette.

Appena erano scorsi dieci giorni, dacchè avea il poter nelle mani, che mise a morte insieme con alcuni altri Amanzio, primario fra gli eunuchi di Corte, dandogli a delitto non altro che qualche indiscreta parola contro il vescovo della città: cosa che presso tutti il rendè terribilissimo. E tanto più che poco appresso, dopo avere sotto pubblica fede, e solenne promessa d’impunità, chiamato a sè Vitaliano, che avea aspirato all’Imperio; e dopo avere seco lui celebrati i misterii de’ Cristiani, eccitati sospetti, e creati disgusti, in mezzo alla Corte, lui e gl’intrinseci suoi trucidò empiamente, senza badare alla violata fede, che pur tanto debbe essere sacra.