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Pagina:Opere di Procopio di Cesarea, Tomo III.djvu/501

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LIBRO QUARTO 491

piccar fuoco di nascosto ai granai ov’era in serbo il frumento ed ogni altra vittuaglia. Dalla quale proposta opinava essere per avvenirne l’una delle due, o che i Romani, tutti in affanno ed occupati ad estinguere l’incendio lascerebbon tempo a suoi di ascendere le mura, o intenti a respignere gli assalitori nulla curerebbonsi de’ granai, e quindi, consumato dalle fiamme il frumento e gli altri bisogni della vita, in breve ora senza pericolo ridurrebbero l’assediata Archeopoli sotto il dominio persiano. A tanto miravano le inchieste di Mermeroe, ed il fellone di guisa accolsele che non appena veduta nel suo bollore la mischia pose a fuoco in occulto i luoghi sotto de’ granaj. Al primo comparir delle fiamme dunque accorsavi piccola mano di Romani riuscì a stento e fatica a spegnerle, di già essendosi ampiamente diffuse. Gli altri tutti, come dicea, piombarono sopra il nemico, e col repentino urto e spavento da essi apportato ne uccisero molti inermi ed inetti alla difesa, mai più i Persiani temendo che quella guernigione ristrettissima di gente prendesse a combatterli mentre sbandati e senz’ordine procedevano ai merli, disarmati ed incapaci della minor resistenza portando sopra gli omeri le arieti. Queglino poi dagli archi tesi avvidersi ben presto venuti al combattimento dell’impotenza loro a vincere. In questa per ventura uno degli elefanti inaspratosi, o per tocca ferita, o da sua posta, gittando a terra, col rinculare, quanti avea sul dorso, ruppe l’intera ordinanza; laonde i barbari pigliarono a ritirarsi, ed i Romani ad esterminare più alla dirotta chiunque capitava loro innanzi. Qui a buon di-