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Pagina:Opere varie (Manzoni).djvu/122

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116 discorso storico

Qui dovrebbe cominciare la storia positiva, la vera, l’importante storia: qui si sente subito, che la scoperta di quell’errore non è tanto una cognizione quanto una sorgente di curiosità per chi nella storia vuol vedere in quante maniere diverse la natura umana si pieghi e s’adatti alla società: a quello stato così naturale all’uomo e così violento, così voluto e così pieno di dolori, che crea tanti scopi, dei quali rende impossibile l’adempimento, che sopporta tutti i mali e tutti i rimedi, piuttosto che cessare un momento; a quello stato che è un mistero di contradizioni in cui la mente si perde, se non lo considera come uno stato di prova e di preparazione a un’altra esistenza.

Appena ammesso il fatto della distinzione delle due nazioni, s’affacciano molt’altre questioni: n’accenneremo qui alcune, per indicar l’importanza di ciò che s’ignora, avvertendo però prima che non siamo in caso di risolverne nessuna.

Qual era, ne’ due secoli della dominazione longobardica, lo stato civile degl’Italiani, superiori certamente, e di molto, in numero alla nazione conquistatrice? Eran essi, come dice il Maffei 1, in vera servitù? Ma in qual grado? O eran rimasti padroni delle loro persone e delle loro proprietà, e la loro dipendenza era puramente politica? Ma com’eran protette quelle? e qual era la forma di questa? Erano state lasciate in piedi l’autorità subordinate che si trovavano al tempo della conquista? E da chi dipendevano? chi le conferiva? O eran cessate per cagion di quella? E qual fu, in questo caso, il nuovo modo d’azione e di repressione su quel popolo, o su quella moltitudine? Noi sappiamo, o poco o tanto, o bene o male, quali eran le attribuzioni de’ re, de’ duchi, de’ giudici longobardi, riguardo alla loro propria nazione; ma cosa erano tutti costoro per gl’Italiani, tra i quali, sopra de’ quali vivevano?

Ecco alcune delle tante cose che ignoriamo intorno allo stato della popolazione d’una così gran parte d’Italia, per il corso di due secoli. Si può certamente rassegnarsi a ignorarle; si può anche chiamar frivolo e pedantesco il desiderio di saperle; ma allora non bisogna esser persuasi di posseder la storia del proprio paese. E quand’anche si conosca e la precipitosa invasione, e l’atroce convito, e l’uccisione a tradimento d’Alboino, le galanterie d’Autari, le vicende di Bertarido, la ribellione d’Alachi e il ristabilimento di Cuniberto, le guerre di Liutprando e d’Astolfo, e la rovina di Desiderio, bisogna confessare che non si conosce se non una parte della storia, per dir così, famigliare d’una piccola nazione stabilita in Italia, non già la storia d’Italia.

Prenda dunque qualche acuto e insistente ingegno l’impresa di trovare la storia patria di que’ secoli; ne esamini, con nuove e più vaste e più lontane intenzioni, le memorie; esplori nelle cronache, nelle leggi, nelle lettere, nelle carte de’ privati che ci rimangono, i sogni di vita della popolazione italiana. I pochi scrittori di que’ tempi e de’ tempi vicini non hanno voluto nè potuto distinguere, in ciò che passava sotto i loro occhi, i punti storici più essenziali, quello che importava di trasmettere alla posterità: riferirono de’ fatti; ma l’istituzioni e i costumi, ma lo stato generale delle nazioni, ciò che per noi sarebbe il più nuovo, il più curioso a sapersi, era per loro la cosa più naturale, più semplice, quella che meritava meno d’essere raccontata. E se fecero così con le nazioni attive e potenti, e dal nome delle quali intitolavano le loro storie, si pensi poi quanto dovessero occuparsi delle soggiogate! Ma c’è pure un’arte di sorprendere con certezza le rivelazioni più importanti, sfuggite allo

  1. Verona illustrata, Lib. 10, col. 273.