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appendice al capitolo terzo | 135 |
moranti in Genova avessero, per quell’attaccamento al passato, e per quella fiducia nell’avvenire, che abbandona così tardi gli emigrati politici, conservato là, tra di loro, un simulacro di curia: parvam Troiam, simulataque magnis Pergama.... solatia victis 1 .
Ma come mai potè il Romagnosi immaginare quell’Ordine in titoli dove non si trova? È lecito, anzi conveniente il credere che non gli abbia guardati: la svista sarebbe certamente stata più strana. È, dico, da credere che, trovandoli nella Dissertazione del Muratori2, citati insieme coi
- ↑ Virg. Aen. Lib. III, v. 346; lib. V, v. 367.
- ↑ È dalla parola populo, la quale, come abbiam visto, si trova realmente in due di que’ titoli, che il Muratori credette di poter indurre l’esistenza del municipio in Milano, al tempo di san Gregorio. «Noi troviamo,» dice, «che San Gregorio scrive l’Epistola IV. del Lib. XI. Populo, Presbyteris, Diaconis et Clero Mediolanensi, compiagnendo la morte dell’Arcivescovo Costanzo, ed un’altra ai medesimi collo stesso titolo. Se non v’era allora nella Città figura alcuna di Comunità, e di Ordine, sotto qualche Magistrato; chi del Popolo avrebbe ricevuto e letto le Lettere Pontificie, e date le risposte?» Ma bisogna dirlo: non badò l’uomo dottissimo a chi e dove quelle lettere erano dirette. I Milanesi che, costretti dalla ferocia de’ barbari, dimoravano in Genova, ecco, ripeto, il popolo a cui scriveva Gregorio. — Ma, — penserà forse qualcheduno, — cosa dovevano dire i Milanesi rimasti a casa loro, di veder trasferita a degli assenti l’elezione del vescovo, e il nome di popolo? — Rispondo francamente per que’ Milanesi, non so s’io dica più o meno sventurati degli assenti, che di questo erano contentissimi. Cosa volevano, infatti, ne’ loro vescovi? Prima di tutto, che fossero cattolici, e di nome e di fatto. Ora, ognuno vede quanto la cosa sarebbe stata, non solo difficile, ma rischiosa, con elezioni fatte in Milano, sotto il potere d’una nazione ariana, e di re ariani. Se uno de’ migliori s’ingegnava di far paura anche a quelli che non poteva arrivare, quanto più era da temere che avrebbero adoprata la forza dove l’avevano, per far cadere l’elezione sopra uomini cattolici solamente di nome? Ed era da temere egualmente che di quest’uomini n’avrebbero trovati. Non so se nella storia ci sia un solo esempio d’un cattolico, il quale, per servire scaltramente gl’interessi della sua religione, si sia finto, in dato circostanze, aderente a qualche eresia dominante, abbia protestato d’aver per essa un gran rispetto: ma, di non cattolici che si siano protestati cattolici, quanti non ne dà la storia! Gli eresiarchi medesimi hanno tenuta questa strada, per più o meno tempo, cioè fin che speravano, con quell’apparenza, di fare che de’ cattolici diventassero eretici, quasi senza avvedersene. E la ragione di questa differenza è facile a vedersi. Non si può aiutare in nessuna maniera la verità, col negarla: l’errore sì; perchè l’unica sua forza sta nell’esser gradevole: e cos’importa che, per acquistar tempo l’abbiate negato, quando, col tempo, vi riesca di farlo gradire? Ecco il perchè quei Milanesi, cattolici com’erano (e si vede dall’ubbidienza mantenuta per circa settantasett’anni ai loro vescovi assenti), dovevano preferire dell’elezioni fatte in luogo sicuro, da persone indipendenti, e in libera comunicazione col supremo e perpetuo conservatore dell’unità cattolica, a quelle che avrebbero potute far essi in circostanze così contrarie. Del resto, nella dissertazione citata, l’opinione della conservazione de’ municipi non è espressa con una fermezza tale, che sia esatto il dire: Ho creduto col Muratori. Ecco la conclusione di questo scrittore: «Potrebbono queste poche notizie insinuare, che anche ne’ Secoli prima del Mille anche il Popolo formasse un corpo non privo di qualche regolamento e Magistrato.» E nella dissertazione latina: In his ergo (temporibus) specimen aliquod Corporis Popularis videor mihi videre in quo suus esset locus tam Nobilibus, quam plebi, et jus ad conventus faciendos, et aliquis Ministrorum ordo. Non equivale certamente a credere: e infatti, le discussioni posteriori e recenti, accennate sopra, fanno vedere quanta ragione abbia avuta il Muratori di non cavare da quelle veramente poche e non ben distinte notizie una conclusione più risoluta. È una delle questioni che ha messe in vista, piuttosto che trattate.
L’ultima delle lettere in questione fu portata da Aretusa, «donna chiarissima;» e non ha altro oggetto che di raccomandare che le sia fatta giustizia, sopra alcuni legati lasciati alla famiglia di lei dell’arcivescovo Lorenzo nominato sopra. Latrix praesentium Arethusa, clarissima foemina, propter causam legati quod ei, conjugique, vel filiis ipsius Laurentius frater noster reverendae memoriae Episcopus vester reliquerat, diu est apud nos, ut recolitis, demorata.... Idcirco Dilectionem vestram scriptis praesentibus adhortamur, ut memoratae mulieri illuc venienti caritatem quam decet Ecelesiae filios impendatis, et cum auctore Deo Ecclesia fuerit ordinata, id agatis, quatenus causa ipsa, quae tempore diuturno dilata est, ita sine mora, aequitate servata, debeat terminari. Qui non abbiamo prove materiali da allegare; ma, come abbiam detto, è cosa più che probabile, che questa lettera, la quale porta lo stesso titolo dell’altre, sia stata diretta alle stesse persone. Anzi è la sola cosa probabile: poichè a chi altri si sarebbe rivolto il papa, in una tale occasione? Non s’è egli visto in questa nota medesima, che l’entrate della Chiesa milanese non erano in paesi soggetti ai Longobardi? E chi doveva averne l’amministrazione, se non chi amministrava la Chiesa medesima, e di più era indipendente dai Longobardi? Come dunque supporre che il papa indirizzasse la sua raccomandata a Milano, in hostium locis, dove non c’era, nè di che, nè chi darle ciò che le poteva esser dovuto?