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188 discorso storico

Ma ciò che fa più stupore ancora del ragionamento, è il pensare di chi è. Chi trova, dico, che un papa avrebbe fatta una cosa naturalissima, e da doversi aspettare, annullando con un motuproprio, anzi con una semplice cerimonia, un’elezione solennemente fatta da chi toccava, e facendone una lui; chi vuole che, per rifiutare una proposta simile, bisognasse covare internamente certe massime, e aver per sospetta (bello quel sospetta!) la potenza che la facea, è quel Giannone, il quale tutti sanno se ha gridato contro la pretensione attribuita ai papi di poter fare e disfaro i re a piacer loro. È un caso raro che uno contradica a sè stesso a questo segno, per dare addosso a un nemico; e davvero gli starebbero bene in bocca quelle parole d’un personaggio di tragedia:

Per troppa
Gran rabbia cieco . . . . . . . . . . . . . . .
Lo empiei di tante e di tante ferite,
Che d’una io stesso il mio fianco trafissi 1.

«Onde questi sdegnato, e finalmente perduta ogni pazienza, credendo colla forza ottener quello, a che le preghiere non erano arrivate, invase l’esarcato, ed in un tratto avendo presa Ferrara, Comacchio, e Faenza, designò portar l’assedio a Ravenna. Adriano non mancava, per Legati, di placarlo, e di tentare per mezzo degli stessi la restituzione di quelle città; nè Desiderio si sarebbe mostrato renitente a farlo, purchè il pontefice fosse venuto da lui, desiderando parlargli, e seco trattar della pace. Ma Adriano, rifiutando l’invito, ed ogni ufficio, si ostinò a non voler mai comparirgli avanti, se prima non seguiva la restituzione delle piazze occupate. Così cominciavano pian piano i pontefici romani a negare ai re d’Italia quei rispetti e quegli onori, che prima i loro predecessori non isdegnavano di prestare. Desiderio irritato maggiormente per queste superbe maniere di Adriano comandò subitamente, che il suo esercito marciasse in Pentapoli, ove fece devastar Sinigaglia, Urbino, e molte altre città del patrimonio di S. Pietro fino a Roma.»

Se uno storico pasciuto nella reggia di Desiderio avesse chiamato il rifiuto d’Adriano, superbo, iniquo, e anche inumano; via, sarebbe in regola: ma che, già di nove secoli dopo il fatto, quando non c’erano più Longobardi, uno scrittore il quale non doveva avere altro partito che la verità, altro interesse che la giustizia, abbia qualificate di superbe le maniere d’Adriano in quel caso, d’ostinato il suo non volersi movere, l’è strana bene. Mai Desiderio non prese il titolo di re d’Italia; ma l’avesse preso, come poteva venir da ciò che Adriano dovesse andare all’ubbidienza di quel re? Se questo l’avesse preteso per diritto, come re d’Italia, toccherebbe allo storico a trattare una tal pretensione come si meritava; ma il re non l’ebbe, e lo storico l’ha immaginata. E scegliendo tra tutti i sistemi di diritto pubblico, non se ne troverà uno, in cui ci sia un principio per il quale Adriano, che abitava un paese su cui i Longobardi non avevano un diritto nemmeno sognato (quando il desiderio non costituisca un diritto), un principio, dico, per il quale Adriano dovesse presentarsi a loro, quand’era chiamato.

Gli scrittori di storie, raccontando e giudicando avvenimenti consumati, irrevocabili, non esercitano sui fatti alcuna influenza; ma la loro autorità su di quelli, quanto è inoperosa e sterile, è altrettanto più degna

  1. Alfieri, Congiura de’ Pazzi, V. 5.