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238 il conte di carmagnola


   — Ahi sventura! Ma spose non hanno,
Non han madre gli stolti guerrieri?
Perchè tutte i lor cari non vanno
Dall’ignobile campo a strappar?
E i vegliardi che ai casti pensieri
Dalla tomba già schiudon la mente,
Che non tentan la turba furente
Con prudenti parole placar?

   — Come assiso talvolta il villano
Sulla porta del cheto abituro,
Segna il nembo che scende lontano
Sopra i campi che arati ei non ha;
Così udresti ciascun che sicuro
Vede lungi le armate coorti,
Raccontar le migliaia de’ morti,
E la pietà dell’arse città.

   Là, pendenti dal labbro materno
Vedi i figli che imparano intenti
A distinguer con nomi di scherno
Quei che andranno ad uccidere un dì;
Qui le donne alle veglie lucenti
De’ monili far pompa e de’ cinti,
Che alle donne deserte de’ vinti
Il marito o l’amante rapì

   — Ahi sventura! sventura! sventura!
Già la terra è coperta d’uccisi;
Tutta è sangue la vasta pianura;
Cresce il grido, raddoppia il furor.
Ma negli ordini manchi e divisi
Mal si regge, già cede una schiera;
Già nel volgo che vincer dispera,
Della vita rinasce l’amor.

   Come il grano lanciato dal pieno
Ventilabro nell’aria si spande;
Tale intorno per l’ampio terreno
Si sparpagliano i vinti guerrier.
Ma improvvise terribili bande
Ai fuggenti s’affaccian sul calle;
Ma si senton più presso alle spalle
Anelare il temuto destrier.