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anche da un lato puramente estetico; nacque facilmente il pensiero di comporne altri sulla stessa idea, e (perché anche l’imitazione non va per salti) sopra soggetti presi ugualmente dalle tradizioni dell’età favolose. E questa fu la prima forma dell’epopea letteraria; la quale differiva dalla prima in quanto al non avere né l’effetto, né I ’ intento d’ottener fede alle cose raccontate; e ne serbava però quella condizione importante del raccontar cose, alle quali non c’erano cose positive e verificabili da opporre. Non era più la storia, ma non c’era una storia, con la quale avesse a litigare. Il verosimile, cessando di parer vero, poteva manifestare e esercitar liberamente la sua propria e magnifica virtù, poiché non veniva a incontrarsi in un medesimo campo col vero, il quale, o volere o non volere, ha anch’esso una sua ragione e una sua virtù propria e che opera indipendentemente da ogni convenzione in contrario. Di questa forma c’è rimasto il monumento, senza dubbio il più splendido, l’Eneide.
Che poi i poemi omerici fossero da principio accettati come storia, s’argomenterebbe abbastanza, quando non ce ne fossero altri indizi, dal sapere che allora non ce n’era altra, e dal riflettere che i popoli non stanno senza storia. De’ fatti umani, e principalissimamente di quelli de’ loro antenati, vogliono essi conoscere il vero, e ne vogliono conoscer molto, ben lontani dall’immaginarsi che, in una tal materia, si possa cavare un piacere d’altro genere dalla contemplazione del mero verosimile. Quindi quell’ingrossarsi, e quel trasformarsi delle tradizioni, alle quali l’invenzione sostituiva di mano in mano, e con la bona misura, i particolari che non potevano più esser somministrati dalle rimembranze: invenzione, facile, spontanea e, in parte, direi quasi involontaria ne’ suoi autori, e che, certo, non era presentata a delle menti desiderose di trovarla in fallo. Del rimanente, che tale fosse e l’autorità e l’origine di que’ poemi, nessuno ne dubita, e non è certamente d’uomini tra i meno osservatori o tra i meno eruditi quella congettura, che siano, non già lavori d’un uomo solo, messi, per dir così, in brani da quelli che li cantavano, più o meno fedelmente, al popolo, e rimessi poi insieme; ma una raccolta, una cucitura del lavoro successivo di molti, intorno ai medesimi temi; e che il loro vero autore sia stato l’Omero sperduto dentro la folla de’ greci popoli, come dice il Vico1, con quella sua originalità, non di rado ancor più dotta che ardita. A ogni modo, quelle storie parlavano alla credulità, non al bon gusto, che non era ancora nato. E si pensi un poco come sarebbero stati accolti i rapsodi se avessero detto, e potuto dire: bona gente, i fatti che siamo per cantarvi, avremmo potuto raccontarveli, per quello che se ne sa, come sono avvenuti, ma per divertirvi meglio, crediamo bene di presentarveli in una forma diversa, arbitraria, levando e aggiungendo, secondo l’arte.
Un esempio più specificato di questo amore rigoroso della verità in gente ascoltatrice avidissima di favole, si può vedere ne’ romanzi del medio evo, cantati anch’essi da quella specie di novi rapsodi, chiamati trovatori, giullari, menestrelli: romanzi da’ quali provenne la nova epopea, che ne prese il nome di romanzesca. Ecco a questo proposito alcune parole dell’erudito La Curne S.te Palaye:
«Pare che da principio la storia sola fosse l’oggetto di que’ poemi, se così si possono chiamare de’ racconti composti in metro e in rima, per aiuto della memoria...
«È certo che le cronache di san Dionigi erano in gran credito ne’ se-
- ↑ Scienza nuova, libro III: Discoperta del vero Omero.