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desiderio d’esser creduti, di passare per semplici traduttori, per semplici ripetitori di leggende o di storie consacrate1

Quelle proteste equivalgono all’invocazione omerica della dea figlia della memoria; e fanno vedere come, anche in un tempo di storia scritta, fosse il desiderio di credere, quello che attirava ai racconti epici la parte più indotta della popolazione, cioè la parte che somigliava di più alla popolazione intera de’ tempi d’Omero, o degli Omeri, che si voglia dire.

Ma per continuare questi brevi cenni sull’antichità classica (giacché, per fortuna, l’argomento non c’impone di parlare de’ fatti analoghi di altre antichità: fatti notabilissimi, ma che non ebbero parte nella genesi dell’epopea di cui trattiamo) è certo che anche in Roma l’epopea comparve in apparenza e con autorità di storia. Che il racconto della fondazione di Roma fosse in gran parte una fattura poetica, era cosa già riconosciuta al tempo di T. Livio2; l’osservazione de’ moderni estese questo giudizio, dove con argomenti molto forti, dove con più o meno probabili, ad epoche più avanzate. Ma la più antica forma nella quale que’ racconti siano pervenuti fino a noi, è la forma propria della storia, e pare verosimile che abbiano cessato presto d’essere in arbitrio di poeti ciclici, se ci furono mai. Era quello un serioso poema, come dice il Vico del Diritto romano antico3; e non pare che il patriziato romano, custode, conservatore e consacratore d’ogni cosa, avrebbe lasciata in balia de’ divertitori e maestri della plebe una storia nella quale erano piantati i fondamenti d’istituzioni fatte per mantenere il suo dominio sulla plebe. Il soggetto di quell’epopea non era un’accidentale e temporaria federazione di principi, per la distruzione d’una Città, e per ritornar vincitori ne’ loro rispettivi stati (poveri stati!) a far baruffe tra di loro, dopo averne fatte di strane, anche nel tempo e nel forte dell’impresa. Era la fondazione e il progresso della città (e che città!) di que’ patrizi medesimi. Importava poco, anche ai Greci, che Minerva avesse detta una cosa più che un’altra a Pandaro, per indurlo a ferir Menelao o Iride ad Achille, per mandarlo a salvar da’ Troiani il corpo di Patroclo; ma non sarebbe stata una cosa indifferente che la fantasia di poeti popolari avesse potuto sbizzarrire sulle conferenze di Numa con Egeria; dalle quali era uscita l’istituzione de’ sacerdozi e la norma de’ riti e, non che altro, la scienza, rimasta poi arcana per tanto tempo, de’ giorni fasti e nefasti4. La novella dell’augure Azzio Navio, che opponendosi a Tarquinio Prisco il quale voleva istituire delle nove tribù senza la prova dell’augurio, conferma la sua scienza con un prodigio, bastava a stabilire e a perpetuare l’autorità degli auguri e degli auspici, senza i quali non si doveva prendere determinazione veruna5, e i quali erano attribuzione e proprietà de’ patrizi6. E sarebbe stata cosa, non solo superflua, ma pericolosa, che dell’altre novelle su una tale materia fossero inventate, a capriccio o maliziosamente, e cantate alla plebe, contro la quale gli auspici erano così spesso adoprati, e della quale servirono a frenar gi’impeti e a interrompere le de

  1. Histoire de la poésie provençale, chap. XXV; vol. 2, pp. 281, 282.
  2. Quae ante conditam, condendamve urbem, poeticis magis fabulis, quam incorruptis rerum monumentis traduntur, ea nec affirmare, nec refellere in animo est. Tit. Liv. Histor., Praef.
  3. Scienza Nuova, libro IV: Corollario.
  4. T. Liv., 1, 21, 22.
  5. Ut nihil belli domique postea, nisi auspicato gerentur. Id., I, 36.
  6. Respondit quod nemo plebeius auspicia haberat. Id., IV, 6.