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capitolo decimosettimo 527

ancora supposta viva la guerra dell’inclinazioni del senso? Egli stesso ne parla; egli discende dalle caste e alte visioni del terzo cielo, a mostrarsi nell’arena de’ combattenti carnali: costretto a rivelare il segreto del suo animo, lo rivela tutt’intero per esser tutto conosciuto1.

Se la modestia è l’umiltà ridotta in pratica, non si può combinare con l’orgoglio, che è il contrario di questa; e non ci sarà alcun giusto orgoglio. L’uomo che si compiace di sè stesso, che non riconosce in sè quella legge delle membra che contrasta alla legge della mente2, l’uomo che osa promettere a sè stesso, che, per la sua forza sceglierà il bene nell’occasioni difficili, è miserabilmente ingannato e ingiusto; l’uomo che s’antepone agli altri è temerario; è parte, e si fa giudice. Che se, per un giusto orgoglio, s’intende riconoscere la verità del bene che s’è fatto, senza attribuirlo a sè, e senza invanirsene, sarà questo un sentimento legittimo, anzi un sentimento doveroso; ma l’umiltà non l’esclude, ma è l’umiltà stessa, ma la condotta contraria è proscritta dalla morale cattolica come menzognera e superba; poichè chi crede che, facendo un giusto giudizio di sè, avrebbe di che gloriarsi, e che, per poter esser umile, abbia bisogno di contraffarsi, è un povero superbo; ma finalmente bisogna permetterci di chiamare questo sentimento altrimenti che orgoglio; non per cavillare su una parola, ma perchè questa è consacrata a significare un sentimento falso e vizioso in tutti i suoi gradi. E poichè la condotta esterna può essere in molti casi la medesima in chi ha il sentimento dell’umiltà, e in chi non l’ha, importa di conservare il suo senso alla parola che è appunto destinata a specificare il sentimento. L’orgoglio non può dunque esser mai giusto; quindi non può mai essere, nè un sostegno alla debolezza umana, nè una consolazione nell’avversità.

Questi sono frutti dell’umiltà: è essa che ci sostiene contro la nostra debolezza, facendocela conoscere e ricordare ogni momento; l’umiltà che ci porta a vegliare e a pregare Colui che comanda la virtù e che la dà; è essa che ci fa alzar lo sguardo ai monti donde ci viene l’aiuto3 . E nelle avversità, le consolazioni sono per l’animo umile, che si riconosce degno di soffrire, e prova il senso di gioia che nasce dal consentire alla giustizia. Riandando i suoi falli, le avversità gli appariscono come correzioni d’un Dio che perdonerà, e non come colpi d’una cieca potenza; e cresce in dignità e in purezza, perchè, a ogni dolore sofferto con rassegnazione, sente cancellarsi alcuna delle macchie che lo deformavano. Che più? arriva fino a amare l’avversità stesse, perchè lo rendono conforme all’immagine del Figliuolo di Dio4; e in vece di perdersi in vane e deboli querele, rende grazie in circostanze, nelle quali, se fosse abbandonato a sè stesso, non troverebbe che il gemito dell’abbattimento, o il grido della ribellione. Ma l’orgoglio! Quando Iddio avrà umiliato il superbo come un ferito5, l’orgoglio sarà per lui un balsamo? A cosa può servire l’orgoglio nelle avversità, se non a farle odiare come ingiuste, a suscitare in noi perpetuamente un irrequieto e doloroso paragone tra quello che ci par di meritare e quello che ci tocca soffrire? Il punto di riposo per l’uomo, in questa vita, è nella concordia della sua volontà con la volontà di Dio sopra di lui; e chi n’è più lontano che l’orgoglioso, quando è percosso? L’orgoglio è garrulo nella sventura, quando trovi ascoltatori; s’agita

  1. Et ne magnitudo revelationum extollat me, datus est mihi stimulus carnis meæ, angelus Satanæ, qui me colaphizet. Ibid. 7.
  2. Video autem aliam legem in membris meis, repugnantem legi mentis meæ. Rom. VII, 23.
  3. Levavi oculos meos in montes, unde veniet auxilium mihi. Ps. CXX, 1.
  4. Quos præscivit, et prædestinavit conformes fieri imaginis Filii sui. Ad Rom. VIII, 29.
  5. Tu humiliasti, sicut vulneratum, superbum. Ps. LXXXVIII, 11.