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di Marsigliese, perchè stampata e pubblicata nel 1792, cioè un anno prima della legge surriferita, era caduta nel pubblico dominio, e poteva da chiunque essere riprodotta.»
Oh vede se non avevo ragione di dire che quel falso concetto di proprietà letteraria era il mio principale, anzi il mio unico nemico in questa controversia. Tutta la forza apparente di quel giudizio, e d’ogni persuasione conforme a quello, viene di lì. Difatti, in cosa può consistere, e a cosa si può riferire il dominio, se non a proprietà?
Due cose, secondo i diversi casi, s’intendono, se non m’inganno, da tutti, per dominio pubblico: o i beni e i redditi appartenenti allo Stato; o le cose appropriabili e che, non essendo state appropriate da nessuno, lo possono essere da ognuno. E in tutt’e due questi sensi l’idea essenziale, quella che li forma, è sempre l’idea di proprietà o attuata o attuabile.
L’eccellente Dizionario dell’Accademia francese dà, per il caso speciale di cui si tratta, la definizione che traduco qui letteralmente: «Essere nel dominio pubblico, cadere nel dominio pubblico, si dice dell’opere letterarie e dell’altre produzioni dello spirito e dell’arte, le quali, dopo un certo tempo determinato dalle leggi, cessano d’esser la proprietà degli autori, o de’ loro eredi.
È sempre la proprietà e dico la proprietà degli autori, rigettata da Lei e da me, come un concetto falso e chimerico, quella su cui si fonda la supposta devoluzione al dominio pubblico. Cessano, dice la definizione, d’esser la proprietà degli autori o de’ loro eredi. E non è questo un incontro accidentale e fortuito di parole. L’idea antecedente dell’essere le opere state originariamente proprietà degli autori, è necessaria per formare il concetto del loro esser passate nel dominio pubblico; giacchè come mai potrebbe appartenere a questo, esser fatto, com’Ella dice, cosa pubblica ciò, che non avesse avuto antecedentemente l’essenza e i caratteri della proprietà? E ecco come i falsi concetti, nel loro corso naturalmente irregolare e capriccioso, si rivolgono alle volte contro quelli, in favore de’ quali furono da principio, messi in campo.
Ella medesima in un passo che avrò occasione di citare più tardi, dice: «Un libro pubblicato dieci anni prima della convenzione del 1840, ma non mai riprodotto, non fu usucapito dal pubblico, restò proprietà dell’autore.» Tanto l’idea d’una proprietà antecedente dell’autore si ficca da sè, come necessaria e fondamentale, in un ragionamento dove si voglia stabilire una proprietà letteraria del Pubblico.
Se ho bene osservato il valore del principio su cui si fonda quel giudicato, avrò nello stesso tempo mostrato di che peso possa essere la sua autorità.
Ho detto che ogni persuasione conforme ad esso non ha altro fondamento; e la maggior prova di ciò è per me il vedere che gli argomenti addotti da Lei, sia per favorire un’interpretazione contraria a me, degli articoli della legge positiva, sui quali s’aggira tutta la causa; sia per combattere l’interpretazione proposta da’ miei difensori, sono ricavati da quella supposizione che le produzioni dell’ingegno siano una materia di proprietà; di maniera che, levato a quegli argomenti un tale appoggio, perdono ogni efficacia. E è ciò che mi cercherò ora di dimostrare.
2.
Trascrivo il primo de’ due articoli in questione, che è anche il primo della legge:
«Le opere o produzioni dell’ingegno o dell’arte pubblicate negli Stati