Pagina:Oriani - Oro incenso mirra, Bologna, Cappelli, 1943.djvu/102

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a Dio aveva già ricevuto la benedizione della felicità eterna? Eppure egli sentiva con una specie di terrore che l’anima del vecchio aveva protestato amaramente sino all’ultimo minuto, come se le consolazioni della vita futura non bastassero a chiudere le cicatrici di tutta la sua vita umana. Si moriva, morivano i credenti e gl’increduli dopo essere passati sotto le medesime verghe, sparendo nel mistero: solo la religione aveva saputo accendere una lampada sul gran varco per gittare nelle tenebre dell’infinito il bagliore di qualche raggio. E in mezzo a questo trionfo continuo della morte, la vita si manteneva egualmente lieta nella pompa spensierata della propria bellezza, come se la gente e la natura non potessero mai ricordarsene.

Improvvisamente ad un gomito della stradicciuola si vide venire incontro due signore, ricche negli abiti, con un servo gallonato di dietro a pochi passi. Erano madre e figlia, ma questa, forse quindicenne, camminava con una lentezza impressionante. Il suo viso piccino, rotondo, sebbene le gote fossero già un po’ scavate, era di un pallore simile a quello dei vecchi ceri sugli altari; una immensa capellatura bionda, di un oro ardente, le scendeva sulle spalle, mentre coi grandi occhi azzurri, bistrati, guardava tristamente la mamma, che le parlava con tenerezza.

Egli si tirò vergognoso verso il fosso per non urtarle, con uno spasimo nuovo per quella sottana così lagrimevole, dai bottoni sfilacciati e quasi sordida malgrado tutto il suo studio di tenerla pulita, ma la fanciulla accorgendosi forse della sua confusione deviò gli occhi. Quei pochi passi diventavano una immensa distanza, s’imbrogliava a camminare, colla testa bassa, guardando con inconsapevole ardimento il viso della fanciulla. Anch’essa era