Pagina:Oriani - Oro incenso mirra, Bologna, Cappelli, 1943.djvu/115

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Sarebbe bastato lasciarvisi cadere nell’interno dietro la tenda per essere al sicuro. Certo il sacrestano non verrebbe col lume a frugare dentro ogni confessionale per cercarvi un imprudente come lui, molto più che nella chiesa non era esposta alcuna immagine abbastanza riccamente gemmata da attirare la cupidigia dei ladri; ma nella sua fantasia sino allora come atonica scoppiarono improvvisamente tutte le paure dei racconti sulle imprese sacrileghe tentate appunto di notte nelle chiese. Un terrore sacro gli gelò il sangue, l’ombra stessa pareva appesantirglisi intorno con una gravezza spirituale. La gente se ne andava sempre, facendo dare un tonfo al portello, poscia altri entravano, si distingueva dalla differenza dei passi quella delle persone: le donne, quasi tutte del popolo a quell’ora, trascinavano le ciabatte, mentre qualcuna si allontanava con una percossa sottile ed affrettata dei piccoli tacchi. Gli uomini avevano la battuta pesante e parlavano a voce più alta.

Egli ascoltava anelante, senza il coraggio di muoversi; che cosa voleva dunque fare? Oramai quanti nella sacrestia lo conoscevano, avendolo veduto uscire da venti minuti, dovevano immaginarselo a casa tutto contento dei due franchi guadagnati come turiferario: infatti quei quaranta soldi, avvolti nel fazzoletto entro la tasca sinistra della sottana, gli battevano quasi dolorosamente sulla coscia ad ogni moto. Dovevano essere le sette e mezzo, alle otto la chiesa verrebbe chiusa senza dubbio. Eppure l’orrore del sacrilegio che stava per compiere, gelandogli ogni vena, lasciava il suo cervello più limpido per giudicarne tutta la indefinibile follìa. Una attrazione quasi voluttuosa, e quella sinistra poesia del pericolo, che sembra dare al peccato un sofistico incanto di eroismo, gli mantenevano