Pagina:Oriani - Oro incenso mirra, Bologna, Cappelli, 1943.djvu/120

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— Quanti quattrini sprecati! — rispose il sacrestano.

— Che cosa farebbero d’inverno i giardinieri? — soggiunse don Camillo sedendosi sopra un pancone, che scricchiolò. — Avete finito?

— Ventiquattro torce bastano per la notte, io direi.

— Lasciate vedere la pentola.

Poco dopo Giannino li udì ripassare per la chiesa.

— È pesante, eh!? — domandava don Camillo.

Poi disparvero nella sacrestia, e l’uscio si chiuse.

Era solo.

Quello che provò in tale momento, nessuno potrebbe esprimerlo: fu come se la chiesa, diventando improvvisamente immensa come la notte che fuori la circondava, vacillasse tutta nelle tenebre. Egli rimaneva rincantucciato rattenendo il respiro con maggiore sforzo adesso che non c’era più alcuno, gli orecchi tesi nell’ansia di un perseguitato. Qualche orazione gli salì alle labbra fra una paura di rimorsi. Era davvero un sacrilegio? Perchè avrebbe dovuto esserlo? Nella purezza del proprio cuore egli non vi sentiva nulla di male, malgrado tutte le recriminazioni del suo pensiero. Vederla, solamente vederla per inginocchiarsi all’altare, e pregare tutta la notte per lei! Egli solo, all’insaputa di tutti, farebbe la veglia per quella sorellina spirituale morta dentro il proprio profumo mattiniero. Un fervore di orazione lo infiammava come quel giorno della prima comunione, quasi ancora da fanciullo, nella chiesa parrocchiale del suo villaggio parata a festa: la sua anima era assorta allora agli splendori stellanti della fede, con tutti i sensi surreccitati da una ebbrezza di raggi e di suoni che si perdevano in alto. Erano queste le ineffabili consolazio-