Pagina:Oriani - Oro incenso mirra, Bologna, Cappelli, 1943.djvu/139

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lungo i muri delle case, cogli occhi opachi e il viso smunto, così grottesco nella propria orridezza che i monelli gli davano la baia. E il primo era sempre Viù, il suo unico figlio.

Quel giorno stesso dalla porta della pizzicheria vecchia, questi vedendolo attraversare adagio adagio la piazzetta, lo aveva apostrofato:

— Morite pure contento, babbo: io mi bevo anticipatamente i danari per la vostra cassa.

— Maledetto!

Ma l’ingiuria raccapricciante aveva ghiacciato il riso sulle labbra di tutti. Viù non se n’era dato per inteso, anzi scorrazzando per il paese lo aveva riempito del proprio chiasso di bettola in bettola, seguìto da una torma di giovinastri, che bevevano alle sue spalle. Difatti in quel martedì egli aveva intascato parecchie lire colla tassa sul posteggio, della quale il padre aveva dovuto cedergli la riscossione per non potersi più reggere dritto tutta la mattina a farsi pagare dai villani, che venivano colle ceste al mercato.

Però l’ultima scena con Santone era rimasta sullo stomaco a Viù.

Già, prima, aveva combinato con Toto e con Ghino di prenderlo in mezzo per vincergli una bottiglia e sbertarlo poi ignominiosamente; ma nonostante tutta la sua semplicità quegli se n’era accorto minacciandogli uno scapaccione. Viù di rimando aveva messo mano al coltello, se non che la grossa mano di Santone gli era piombata subito sul pugno stritolandoglielo quasi nello strappargli l’arma. Adesso ci pensavano ambedue scontrandosi tratto tratto con una occhiata seria.

— Mi rendi il mio coltello? — chiese Viù all’improvviso.

— No.