Pagina:Oriani - Oro incenso mirra, Bologna, Cappelli, 1943.djvu/240

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Gli vennero meno le gambe, si mise a letto. Il figlio per rispetto mondano, fors’anche per un rimasuglio di pietà, venne ad usargli qualche cura, a portargli qualche zuppa.

Egli non si lagnava. Era d’inverno. Nel solaio aperto a tutti i venti sarebbe gelato il vino: le pareti scrostate e sudicie annebbiavano la poca luce, il pavimento era tutto rotto, la porta sgangherata metteva certi urli ai buffi del vento, che parevano umani. Solo gli uccelli nell’abbaino saltellavano o canticchiavano di quando in quando. Nessun altro mobile o soprammobile occupava un poco di quella nudità desolata, tranne un fiasco spagliato, sospeso per un chiodo a capo del letto. Una volta, quando lo poteva ancora, vi faceva il caffè attaccandolo alla catena del focolare; adesso era vuoto, impolverato, e per coperchio aveva un guscio d’uovo.

E, sintomo di morte vicina, egli aveva venduto quasi tutti gli attrezzi di caccia, meno un sacco di reti che gli servivano da guanciale.

— È morto? — domandava talvolta la gente al figlio.

Questi si stringeva indifferentemente nelle spalle.

Ma un giorno l’arciprete si credette in dovere di visitare il suo organista, che da sei mesi non suonava più e si faceva sostituire dal capobanda del villaggio, un giovane di carattere dolcissimo.

Quando il conte scorse l’arciprete:

— È venuto per darmi il buon viaggio? — esclamò. — Mi dispiace che dovrà accompagnarmi gratis al cimitero, ma io non ce ne ho colpa; l’uso l’hanno inventato loro. Per me ne farei anche a meno.

— Non volete dunque i conforti della religione?

Il conte ebbe un sorriso spavaldo. Egli si era sempre vantato d’empietà pur bazzicando nelle chie-