Pagina:Oriani - Oro incenso mirra, Bologna, Cappelli, 1943.djvu/98

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La morte giovane, prima di tutti quegli inutili sforzi in una carriera, dalla quale ognuno lo respingeva, sarebbe stata la migliore fortuna. Quindi rilesse le poesie di Leopardi, cullandosi nella loro immensa tristezza senza misurarne la profondità, come talvolta errando la notte nelle tenebre aveva provato una indefinibile compiacenza di smarrimento senza chiedersi il significato di tutta quell’ombra, o che cosa potesse esservi al di là.

Ogni giorno, all’ora una volta abituale del passeggio, veniva a trovare don Riva per leggergli l’Osservatore Cattolico, unica lettura della quale ancora s’interessasse, poichè i libri, diceva lui, lo avevano tradito.

— Non studiare, sai. Bisogna essere ignoranti per fare carriera nella nostra classe, poi così si comprendono forse meglio le miserie dei poveri.

— Voi vi siete rovinato a fare il professore di seminario, ve l’ho sempre detto — interveniva stizzosamente la vecchia sorella quasi calva, col capo coperto anche nell’estate da un fazzolettone turchino e gli occhi quasi senza palpebre, rossi fors’anche dalle troppe veglie.

Ella adorava quel fratello, l’ultima persona che le restasse al mondo, col quale viveva da oltre quarant’anni.

— Tacete, pettegola: quella poteva anch’essere la strada per diventare vescovo, se non avessero voluto rovinarmi per forza.

Adesso il maggior tedio gli veniva dalle mosche, insistenti, ghiotte del suo sudore viscoso di ammalato.

— Mi mangiano già prima che sia morto!

Ma la cosa non poteva durare molto. L’idropisia gli era salita dalle gambe al ventre, gonfiandoglielo enorme sotto i lenzuoli; mentre le gote gli