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O la morte o la prigione, non vi era mezzo termine.
Ma daccapo ebbe paura, e si cacciò col pensiero come fuggendo per tutte le vie che gli si aprivano davanti, acciecato da una speranza di salvezza. La passione della vita gli si era ridestata in uno scoppio: qualunque fossero la colpa e la pena che lo minacciavano, non voleva morire. V’era tempo, tutto poteva ancora accomodarsi. Una ressa d’indistinti bisbigli gli saliva dalla memoria di tanti casi disperati, che aveva veduto a poco a poco acconciarsi nella normalità della vita, di altre esistenze quasi sradicate da un colpo di bufera, e che nullameno avevano potuto resistere rituffando le radici nel terreno e coprendosi dopo qualche mese di nuove foglie. Egli non voleva soccombere: la vita protestava in lui da ogni punto dell’anima in un orgasmo di tutte le fibre. Ma nessuna di quelle vie, per le quali il suo pensiero fuggiva smaniando, era neppure abbastanza lunga per dare tempo ad una illusione; tutte finivano contro lo stesso muro, la medesima impossibilità di evitare il processo, dal momento che la cambiale era già nelle mani del pretore. Questi, un giovane di Senigallia, eccezionalmente ricco per la sua classe, mirava a diventare presto giudice, facendo pompa di un riserbo e di una severità egualmente inflessibili.
Ma egli non voleva il processo, quella morte più lenta, ed atroce di qualunque altra nell’agonia del domani o del posdomani, appena il fatto si fosse divulgato, e poi di tutti gli altri giorni sino all’ultimo della condanna a cinque anni, giacchè ci aveva pensato involontariamente altre volte di sfuggita. Quel giorno non sarebbe mai finito su quello scanno degli