Pagina:Ortiz - Letteratura romena, 1941.djvu/106

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quella bestia, non solo per via del bacio di cui parlava la mamma, ma perchè per colpa sua mi toccava sempre levarmi avanti giorno. Arrivato al tiglio, poso il paniere sul sentiero in cima al colle, salgo pian piano sull’albero che mandava un profumo da stordire... e colgo l’upupa proprio sulle uova. Dico tutto contento: «Zitta, carina, chè ti ho acciuffata; ormai vattene al diavolo tu e il tuo bacio!» Ma, mentre sto per tirarla fuori, non so come mi spavento della sua aureola di penne, perchè non avevo mai vista una upupa, e la lascio riscappare nel suo buco. Se non che riflettendo che di serpi con le penne non potevano essercene, perchè avevo udito dire che qualche volta nei buchi degli alberi si trovano anche delle serpi, ripiglio coraggio e allungo la mano per tirare fuori l’upupa... o quel che sarà... ma quella, poverina, si vede che per la paura s’era nascosta nelle cavità più interne, chi sa dove, perchè non la potei più trovare in nessun posto, come se fosse sparita sotto terra. «Mah, anche questa mi va alla rovescia», dico fra me, seccato, levandomi il berretto e cacciandolo dentro al buco; poi scendo, prendo una pietra adatta, risalgo sul tiglio, ripiglio il berretto, metto al suo posto la pietra, pensando che l’upupa dovrà pure sbucar fuori da qualche altra parte prima ch’io torni dal campo. Poi scendo e mi avvio in fretta col paniere verso le opre... Ma, per quanto andassi svelto, il tempo era passato mentre ciondolavo attorno al ciglio per prender l’upupa, e alle opre, manco a dirlo, lo stomaco era andato nelle calcagna, aspettandomi. Sapete il detto: «Lo zingaro, quando ha fame, canta; il «boiaro» passeggia con le mani dietro la schiena; il nostro contadino accende la pipa e tace». Così facevano anche le nostre opre: cantavano come indiavolati nel campo, seduti sul manico della vanga, stancandosi gli occhi a guardare se da qualche parte arrivasse la colazione. Ed eccomi, all’ora del pranzo, di su un poggio, con le vivande fredde e risecchite, facendo un passo avanti e uno indietro a sentirli cantare in quel modo... Allora gli zingari si precipitarono su di me e quasi mi avrebbero divorato se una zingara più giovane non avesse preso le mie parti:

— Via, calmatevi: perchè ve la pigliate col ragazzo? Aggiusterete i conti con suo padre, non con lui!

Allora gli zingari, senza badare a me, si misero a mangiare in silenzio. Ed io, faccia tosta, riprendo il paniere colle scodelle e mi avvio verso il villaggio; ma mi ritrovo sotto il tiglio, ci monto su, metto l’orecchio alla bocca del foro, e sento che ci si sbatte dentro qualcosa: allora levo pian piano la pietra, vi caccio la mano e tiro fuori l’upupa sfinita dal tanto dibattersi; ma le uova, quando volli prenderle, erano ridotte una frittata. Dopo ciò vado a casa, lego l’upupa per una zampa con un filo, e la tengo nascosta alla mamma per due giorni in soffitta, in mezzo ai tini sfasciati; e tutti i momenti salivo su, e quei di casa non capivano che avessi da andare così spesso in soffitta.

Ma due giorni dopo, ecco venir la zia Mariuca dello Zio Andrea, urlando e sbraitando e se la piglia colla mamma per causa mia:

— «O cognata, s’è mai udita una cosa simile? Giovanni ha rubato l’upupa — diceva la zia con aria addolorata — l’upupa che da tanti anni ci chiamava la mattina al lavoro!

Era così sconvolta che quasi piangeva; ed ora capisco che aveva ragione, perchè l’upupa era l’orologio del villaggio. Ma la mamma, poverina, di questo non ne sapeva nulla.

— Che dici mai, cognata? Ma io lo finirei di botte se sapessi che ha