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Un sudore freddo bagnò tutto il corpo di Zibal: egli sentì i suoi ginocchi cedere e lentamente si lasciò cadere a terra, come una bestia che tende il collo per ricevere l’ultimo colpo.

Il succhiello tira lentamente il pezzo quadrangolare... una mano grande e muscolosa entra... ma prima che abbia toccato la trave che cerca, si senton due ruggiti, mentre Zibal gira fortemente l’estremità libera del laccio sul puntello fisso del portone.

Il laccio era ingegnosamente combinato: una corda lunga, di cui una estremità legata a un puntello; a una distanza misurata, sul posto dove il quadrato stava per sparire, c’era un nodo scorsoio che Leiba teneva aperto colla mano sinistra, mentre colla destra stringeva l’altra estremità. Al momento opportuno Zibal tirò il nodo scorsoio e afferrando rapidamente con ambedue le mani l’estremità libera, con uno sforzo supremo tirò dentro il braccio intero... In un attimo l’operazione fu fatta. Due ruggiti l’accompagnarono; l’uno di disperazione, l’altro di trionfo; la mano era «inchiodata».

Poi si sentirono passi allontanarsi in fretta. I compagni di Giorgio abbandonavano a Zibal la preda presa con tanta scaltrezza.

L’ebreo corse nella bottega, prese la lampada a petrolio e, con un giro sicuro, innalzò al massimo lo stoppino: la fiamma prigioniera nella grata uscì di sopra allegra e vittoriosa, ridando vita precisa alle forme nebulose che stavano intorno. Zibal passò colla lampada in mano nell’androne. Dalla tensione del braccio si vedeva ch’egli aveva rinunziato ad inutile sforzo. La mano era gonfia, e le dita curvate... come per afferrare qualche cosa. L’ebreo avvicinò ad essa la lampada — un brivido — la febbre ritornava. Aveva portato il lume troppo vicino, di modo che tremando aveva toccato col vetro caldo la mano del brigante: si produsse una increspatura violenta delle dita seguita da un gemito sordo.

Alla vista di questo fenomeno, Zibal si riscosse...; attraverso i suoi occhi balenò un’ispirazione strana. Si mise a ridere di un riso che fece tremare la volta dell’androne, e poi rientrò subito nella bottega.

Spuntava l’alba.

Sura si destò in sussulto... Le sembrava d’aver inteso nel sonno dei ruggiti spaventosi... Leiba non era nella stanza... Accadeva qualcosa di brutto. Balzò dal letto e accese il lume. Il letto di Leiba era intatto. Egli non si era coricato affatto. Dov’era? La donna guardò attraverso la finestra: sulla montagna che s’ergeva dirimpetto uno stuolo di lumi piccoli e vivi si moveva, saltava, ora sparendo, ora riapparendo di nuovo...

La gente usciva dalla chiesa. Sura aprì un po’ la finestra; allora udì dei gemiti soffocati nella direzione del portone. Spaventata, discese subito la scaletta. L’androne era illuminato. Arrivata alla soglia, la donna fu colpita da uno spettacolo raccapricciante. Leiba stava su d’una sedia di legno, coi gomiti sui ginocchi e col mento appoggiato sulle mani, come un scienziato che nella miscela di alcuni elementi cerchi di sorprendere un segreto sottile della natura, che da molto tempo gli sfugge. Zibal tiene gli occhi fissi su una cosa pendente, nera e inferme, sotto la quale, su di un’altra sedia, ad una certa altezza, brucia una torcia.

Zibal guarda, senza batter ciglio, il processo di scomposizione della mano che non gli avrebbe certamente risparmiato la vita. Egli non aveva sentito gli urli del disgraziato di fuori, essendo tutto preso da ciò che vedeva. Zibal aveva seguito con voluttà tutte le contrazioni, tutte le increspature