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Tudor Arghezi rappresenta oggi l’incubo dei poeti giovani, che, pur ammirandolo e imitandolo, cominciano già a dar segni d’impazienza. È il gran Maestro, la cui tecnica, perfetta e ardita al tempo stesso, è riconosciuta e in parte subita da tutti i poeti della nuovissima generazione. Natura polemica, amara, acre, inadattabile, qua e là volutamente cinico e brutale fino alla scatologia; di tutto si serve a fine puramente artistico e non manca della nota profondamente umana e persino gentile, soprattutto quando parla di bambini e ai bambini.

La sua ideologia ondeggia fra il rimpianto di un Eden perduto, d’innocenza direi quasi vegetativa, e l’amarezza di chi si sente spinto dalla fatalità del suo io a percorrere strade impervie e maledette.

Citiamo tre frammenti caratteristici:

I.

Non sapendo di carte e d’inchiostro,
il nostro canto s’innalzava cantato
nè l’infinito della vita era guastato
da un canone, uno scritto, una pittura.
— Dove vai? — dicevo al dipartire
e indicavo col braccio l’occidente.
A mezzogiorno, a mezzanotte,
per le quattro strade larghe dell’esistenza,
venivano con noi, su di noi, le aquile
e, accanto a loro, eran le mammelle cariche di latte delle mucche.

(Dal volume «Preghiera». Trad. di Ramiro Ortiz).


II.

Le tentazioni facili e blande
non sono mai state e non sono per me.
Nella mia scodella come nel mio pensiero,
non c’è che il gusto amaro del veleno.
Mi bagno nel ghiaccio e mi corico sulle rocce aguzze,
dov’è tenebre fo fuochi d’artifizio,
dov’è silenzio scuoto le manette,
e abbatto la porta con le mie catene.
Quando mi trovo sulle alte vette,
cerco il pericolo e lo provoco,
scelgo il sentiero più stretto per passarvi su,
portando a cavalluccio tutto il monte.
Il peccato mio vero è molto più grave e imperdonabile.