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Poi che il fango ingordo s’è indurito
ed è diventato
colle orme delle suole
un nastro di gialle impronte.

Splende il sole.

Nelle fosse profonde,
in cui non entriam che carponi,
nelle fosse oscure, dal grave odore,
e ancor piene di fango,
dove ci siam torturati tutto l’inverno,
nessun di noi è rimasto infitto.

Come dei malati su una terrazza d’ospedale,
per quanto lo permette la trincea,
i soldati pallidi sono usciti al sole
e, felici, si salutan con sorrisi:
splende il sole,
c’è da per tutto un’aria bianca e fragile di festa
primaticcia,
e persino il riparo di terra gialla ride
con arie d’oro malato d’anemia.

Sulle spalle delle colline rivestite
di verde crudo, minore,
sulle valli che si rincorrono e folleggiano
con tondeggiamenti d’onde,
sul bosco che tuttavia è rinverdito
(ed era tanto nero!)
cade una pioggia delicata di luce.

All’ombra macchie ritardatane di ghiaccio
sembran gridi,
e, tra le pietre umide,
luccica fresca l’acqua del fiume giù nella valle,
mentre sui fianchi spogli delle colline
sono apparse stradine impensate,
e tante cose nuove di sotto alla lieve,
poi che sotto l’imponderabile fascio
di raggi immobili,
l’intero paesaggio
come un convalescente coricato supino,
sorride al sole, contento.

Intorpidito
io mi domando sorridendo come potrei fare
per stendermi un poco
sul declivio così dolce e concavo
da sembrar un telo verde di amaca.

Un compagno mi chiama con insistenza
frettolosa e nervosa,