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30 parte prima

tettrice di popoloso gineceo, in cui si fecondano i grani che poi riempiono il succulento fico.

E non manca l’ananasso silvestre, il chaguar, che copre sovente vasto suolo protetto da piante annose; dal centro del ceppo di tante foglie verdi, che si slanciano tutte all’intorno ricurvandosi e strisciandosi, lunghe lunghe, strette, grosse, dentate, con la punta e i denti forniti di spine, si alza uno stelo corto e tozzo, sormontato da una pina bianca, sorretta da più ordini di spade orizzontali rosse ceree, e che cadono compiuta la fecondazione. Il frutto è cibo grato agli indigeni e la foglia fornisce l’unica, ma ricca materia tessile, che essi impiegano per funicelle, di cui compongono reti, borse, amacche o letti pensili e perfino camicie.

Quello però che soprattutto vi occupa è il desiderio di veder gl’Indiani. Dapprima tenzonate tra la curiosità di scorgere in lontananza dei punti neri che il mozzo di guardia ve li denunzii per Indiani e la pauretta di trovarvi, quando meno ve l’aspettate, imbroccati da una serqua di frecce scagliate dalla prossima selva, e meno male se fossero sole frecce! Poi vi succede la delusione dell’aspettativa e la confidenza,.... quando a un tratto un grido «gli Indiani» vi fa trabalzare il cuore di cento sensazioni.

I primi che vedemmo erano in parte vestiti, e avevano alcuni il cappello, che prosaicamente se lo levarono al nostro appressarci. Ci seguitarono un pezzo chiedendo tabacco e oggetti, sparendo e ricomparendo improvvisamente al capo delle scorciatoie all’altro lato delle giravolte del fiume; offrivano cuoi e piume, e quando ci fermammo in un luogo sicuro, si avventarono sul bastimento che pareva ci volessero ingoiare; ma eran pochi. Tra loro vi era una donna giovane e bellina.... sì bellina... che portava un cuoio di cervo a vendere; aveva la faccia disegnata, con qualche eleganza, di turchino; e vi era un Indiano con i capelli ripresi di dietro a coda di cavallo e con un’espressione d’occhi e di faccia proprio selvaggia,