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Pagina:Ovidio - Le metamorfosi.djvu/119

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Piramo intanto à suoi negotij intende,
     E cerca di spedir molti partiti,
     Ch’è ben, s’à gir lontan l’amor l’accende,
     Che lasci i fatti suoi chiari, e spediti.
     E così ben sà far, che non comprende
     Alcun, ch’ei lasciar cerchi i patrij liti,
     E ’l suo più gran travaglio, e grande intento
     È d’ammassare insieme oro, et argento.

Poi, c’hebbe quelle cose à fin condotte,
     Ch’erano à l’andar suo molto importanti,
     À casa si tornò vicino à notte
     Con gli istrumenti fidi à i fidi amanti.
     E come torna à le muraglie rotte,
     Trova la sposa sua, che in doglia, e in pianti
     Passato havea gran parte di quel giorno,
     Vedendo tanto indugio al suo ritorno.

Rallegrata che l’hebbe, e instrutta meglio
     Di quanto havesse à far parte per parte,
     Stassi poco à goder l’amato speglio,
     Ma dà le chiavi à lei, bacia, e si parte,
     Che pria, che l’aurea sposa il bianco veglio
     Lasci, spera goderla in altra parte.
     E fra le notti lunghe, c’havut’ hanno,
     Questa fu la più lunga, e di più danno.

Il padre in guardia havea la figlia bella
     Data ad una prudente, e casta zia,
     Che con l’essempio buon, con la favella
     La più lodata à lei mostrasse via.
     Seco l’innamorata damigella
     In una stanza ogni notte dormia,
     E ben le convenia d’essere accorta,
     Per ingannar sì diligente scorta.

E però havea d’un vin dato la sera
     À quella vecchia accorta, e vigilante,
     Il qual, con certa polvere, che v’era,
     Di far dormir tant’hore era bastante.
     Ben la misura havea fidata, e vera,
     Che tutto havuto havea dal fido amante.
     E fu quel beveraggio sì perfetto,
     Che non nocque à la donna, e fe l’effetto.

La prende un sonno sì profondo, e grave,
     Che sia pur romor grande, ella non l’ode.
     Onde d’aprir la figlia più non pave
     Le porte de i balcon per la custode.
     E se ben l’altre notti aperti gli have,
     Trovò più d’una scusa, e d’una frode,
     E disse cosa haver fuor de la loggia,
     Che volea torre à la notturna pioggia.

Et hor con core intrepido, e sicuro
     Senza far’ altra scusa i balconi apre,
     Hor quel, che guarda verso il pigro Arturo,
     Hor quel, che scopre le celesti capre.
     Si duol del tardo moto, e dopo il muro
     Chiude, ne molto stà, ch’ ancho il riapre,
     Vuol saper se ben sà, ch’è troppo presto
     Quando s’alza quel segno, e abbassa questo.

Leva come è vicin d’un’hora à l’hora,
     Che partir si dovea l’ardita faccia:
     E le par meglio uscir per tempo fuora,
     Che gir sì tardi, ch’aspettar si faccia.
     Che vuoi fare infelice, aspetta anchora,
     Fuggi il crudel destin, che ti minaccia:
     Ch’io temo, che la tua soverchia voglia
     Quel ben, che speri haver, non cangi in doglia.

Si veste, e prende un fascetto, c’ha fatto,
     Dove le cose sue più rare porta,
     Ne le bisogna ferro contrafatto,
     Co’l quale si debbia aprir la prima porta,
     Che non le può contender questo tratto
     Le chiavi sue l’addormentata scorta,
     Che mentre dorme, e sonnacchiosa essala,
     Le toglie, et apre, et esce in una sala.

Dove non fece già d’andar disegno
     Per dritto filo, ov’ha fermo il pensiero
     Di porre in opra il contrafatto ingegno,
     E provar se quel fabro ha detto il vero,
     Che s’al buio non gisse à punto al segno,
     Le si potria confondere il sentiero,
     E potrebbe tentar molti usci, prima,
     Che quel trovasse, che d’aprir fa stima.