Vai al contenuto

Pagina:Ovidio - Le metamorfosi.djvu/127

Da Wikisource.

À preghi d’ambedue Mercurio sciolse
     Il ben disposto Dio, la bella Dea,
     E gran piacer di lei toccando tolse,
     Mentre la rete intorno le svolgea.
     Ella vergogna havea, pur gli occhi volse,
     Et al guardo, et al toccar, ch’egli facea,
     S’accorse (e piacer n’hebbe) del desio,
     Ch’era nato di lei ne l’altro Dio.

À l’intricato Dio par di star troppo,
     Ma non à quel, che scioglie, tocca, e vede,
     Et à pena fu sciolto il nobil groppo,
     Che l’armigero Dio trovossi in piede.
     Si gitta un manto intorno, e cerca il zoppo,
     Che gli vuol dar la debita mercede,
     Ma Giove con bel modo il fece accorto,
     Che ’l marito di lei non havea torto.

Al nipote d’Atlante in quella festa
     (Oltre al doppio piacer, che ne riporta)
     Quel sì ben lavorato ingegno resta,
     E tutto lieto al suo palazzo il porta.
     La Dea si mette subito una vesta,
     Et esce à capo chin fuor de la porta,
     E ne fa (sì gran tosco l’avelena)
     Al formator del di portar la pena.

Restò sì vergognosa, e sconsolata
     La colta in fallo di Vulcan consorte,
     Che stè più dì romita, e ritirata,
     E non ardì di comparire in corte.
     Si stà tutta confusa, e travagliata,
     Poi che gli Dei patir non posson morte,
     Ne sà, che mal può farsi al solar raggio,
     Che la vendetta superi l’oltraggio.

Resse già d’Achemenia un Re possente
     Le città fortunate, Orcamo, padre
     D’una, che mai non n’hebbe l’Oriente
     Di si vive bellezze, e sì leggiadre.
     Prima tutte avanzò la sua parente,
     Ma quanto ogni altra superò la madre,
     Tanto ella fu poi vinta da la figlia
     Ne l’esser bella, oltre ogni maraviglia.

Per più opportuna lei l’ irata Dea
     Che debbia il Sole amar, sceglie fra cento,
     Perche dopo la sua Fortuna rea,
     Senta più passione, e più tormento.
     Che per la legge pessima Sabea
     È forza, che ne resti mal contento;
     S’egli vorrà da lei quel, per che s’ama,
     E poi si scopra il fallo de la dama.

La Dea tutte le gratie insieme accoglie,
     Tutte le leggiadrie, tutti gli honori,
     E se ne và con non vedute spoglie,
     Al felice paese de gli odori,
     E giunge, et opportuno il tempo coglie,
     Ch’ella Leucotoe detta usciva fuori
     Del suo superbo, e regale edificio,
     Per gire à venerare il sacro officio.

Come vede la Dea, che il Sol percote
     À caso à la donzella il vago viso,
     Dà quelle gratie à lei, che dar le puote,
     Le fa venusto il volto, e dolce il riso.
     Affrena egli i destrier, ferma le rote,
     E tiene il lume in lei ben fermo, e fiso.
     E non si parte il miser di quel loco,
     Che infiamma il corpo suo d’un’ altro foco.

Non gli sovvien, che se più quivi ei bada,
     Più di quel, che convien, fa lungo il giorno.
     Ma quella gran beltà tanto gli aggrada,
     Che ferma il carro, e mira il viso adorno.
     E mentre andò la donna per la strada,
     L’accompagnò co i raggi d’ogn’ intorno,
     E poi che dentro al tempio si raccolse,
     Per le fenestre à lei le luci volse.

Con quella dignità, che si richiede
     Ad una figlia regia, s’ inginocchia,
     Baciò una serva un libro, e poi gliel diede
     Le ciglia riverente, e le ginocchia.
     Intanto con qual cor, con quanta fede
     Manda i suoi prieghi al cielo, il Sole adocchia,
     E porta grande invidia al sommo Giove,
     Al quale i preghi suoi dirizza, e move.