Vai al contenuto

Pagina:Ovidio - Le metamorfosi.djvu/146

Da Wikisource.

Cadmo non sà, che ’l nipote, e la figlia
     La Deità marina habbia ottenuta;
     Ne che Nettuno con la sua famiglia
     Nomini lui Portuno, e lei Matuta.
     Onde à lasciar già vinto si consiglia
     La città travagliata, e combattuta
     Da tanti strani, e miseri portenti,
     Quella, ch’edificò da fondamenti.

Vecchio, scontento, e misero si parte
     Ne la opinion sua fermo, e costante,
     Con la figlia di Venere, e di Marte,
     E ne l’Illiria al fin ferma le piante.
     Li revocò à memoria à parte, à parte,
     Dal dì, ch’egli lasciò d’esser infante,
     Tutta la vita sua cosa per cosa,
     Con la seco invecchiata, e cara sposa.

Oime (poi disse) oime superno Dio,
     Ho pur discorsi i miei passati eccessi,
     Qual’ offesa, qual mal mai vi feci io,
     Che in tal calamità cader dovessi?
     Sei personaggi ho già del sangue mio
     Da morte si crudel veduti oppressi,
     Che dar non si potria più cruda, ò tale
     À chi commesso havesse ogni gran male.

Forse questo m’avien per quel serpente,
     Ch’ io venendo di Tiro uccisi à l’acque,
     Che fe, che tutta la Sidonia gente
     Innanzi à gli occhi suoi distesa giacque.
     S’io lui non uccidea, col crudo dente
     Egli ucciso havria me, tal che non nacque
     La morte sua da mala intentione,
     Quando io ciò fei per mia defensione.

Se ingiuria à qualche Dio signor si fece
     Del serpe, e contra me serva lo sdegno,
     Faccia serpente me, che in quella vece
     Sarò serpe à quel Dio, s’io ne son degno.
     Dà fine à pena à la sua lunga prece,
     Ch’unisce l’uno, e l’altro suo sostegno.
     Le due gambe si fan coda di serpe,
     Che s’aggira per l’herbe, striscia, e serpe.

Già simiglia Erittonio, ha già di drago
     Dal nodo de le cosce insino al piede,
     E di quel, che sarà vero presago,
     Questo consiglio à la consorte diede.
     Godi una parte de la prima imago
     Donna, mentre dal ciel ti si concede.
     Godi la man viril, l’humane labbia
     Pria, che tutto inserpito il serpe m’habbia.

Piange la Donna amaramente, e dice,
     Dolce marito mio, che sorte, e questa?
     Qual fato, qual destin, qual ira ultrice
     Prender ti fa la serpentina vesta?
     Piange egli, e parla à lei; donna infelice
     Non pianger, ma l’huom godi, che mi resta.
     Ecco viril la man, viril la bocca,
     Baciami l’una homai, l’altra mi tocca.

La mesta moglie il bacia, e la man stringe,
     E riguarda la coda, che s’aggira,
     Et un color, che lui vago dipinge,
     Ceruleo, e nero, ombrato à scacchi mira.
     Intanto tutto il corpo il serpe cinge
     Fin’ à le braccia, e la man dentro tira.
     Cadmo oime (dice allhora) oime consorte,
     La man dentro se’n vien, tienla ben forte.

La man per forza v’entra, e ’l dir gli è tolto,
     Che la lingua in due parti à lui si fende,
     E forma prima un favellar non sciolto,
     E poi suona un parlar, che non s’ intende.
     Già la serpigna squama asconde il volto,
     E se vuol favellare, il sibil rende.
     Pur si volge à la moglie, e dir s’arrischia,
     Ma in vece di parlar sibila, e fischia.

Vede, e stupisce l’infelice moglie,
     Come tutto in quel serpe ei si nasconda.
     Poi dice, esci, ben mio di quelle spoglie,
     Del cuoio serpentin, che ti circonda.
     Oime, dov’è il tuo viso, e chi ti toglie
     La lingua, e fa, che fischi, e non risponda.
     Dov’è l’amato petto, ù son le mani,
     Le spalle, i fianchi, e gli altri membri humani.