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Pagina:Ovidio - Le metamorfosi.djvu/148

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Ma quando l’artificio ammira, e l’opra,
     Che ’l superbo giardin rende sicuro,
     Ch’à pena entrar vi può l’aer di sopra,
     Tanto và in sù l’inespugnabil muro,
     Fa ch’un torbido nembo il giardin copra,
     E fagli intorno il ciel turbato, e scuro.
     Nel mezzo poi del nuvolo si serra,
     E si fà pioggia d’oro, e cade in terra.

Come la nube minacciar la pioggia
     Conosce aperto la donzella Argiva,
     Corre, e ponsi à veder sotto una loggia,
     E de la vista sua l’amante priva.
     Ma quando vide in cosi strana foggia,
     Ch’ogni sua goccia d’or puro appariva,
     Lasciò il coperto, e non temè più il nembo,
     Et à la ricca pioggia aperse il grembo.

Poi che ’l ricco thesoro à la donzella,
     (Che non sà quel che sia) fatt’ha il sen grave,
     Ne và contenta in solitaria cella,
     Che pensa confidarlo ad una chiave,
     Hor quando sola la vergine bella
     Giove rimira, e sospition non have
     D’arbitro, ò testimonio, che ’l palese,
     La vera forma sua divina prese.

Stà per morir la timida fanciulla,
     Quando vede quell’or, che dal ciel piove,
     Che la forma dorata in tutto annulla,
     E ch’al volto divin si mostra Giove.
     Hor mentre egli s’accosta, e si trastulla,
     Ella cerca fuggirlo, e non sa dove,
     Pur tanto ei disse, e tanto oro mostrolle,
     Che n’hebbe finalmente ciò, che volle.

Di Giove partorì la donna un figlio,
     Formato c’hebbe Delia il nono tondo,
     Che d’ardir, di valore, e di consiglio,
     A tempi suoi non hebbe pari al mondo,
     Ma conoscendo d’ambo il gran periglio,
     Se ’l risapeva il suo padre iracondo,
     Tenne nascosto al folle empio, e tiranno
     Quel, che Perseo nomò, fin al quart’ anno.

Entrava nel giardino il padre spesso,
     Perche di cor la bella figlia amava.
     Hor essendovi un giorno, udì da presso
     La voce del garzon, che si giocava.
     V’accorse, e restò si fuor di se stesso,
     Che non sapea, se desto era, ò sognava,
     Vedendo entro al giardin la bella prole,
     Dov’entra à pena l’aere, il gielo, e ’l Sole.

Pien d’ira, e di furor prende la figlia,
     E la strascina un pezzo per le chiome,
     La stratia, la percote, e la scapiglia,
     E chiede, e vuol, che gli confessi, come
     Egli li dentro sia, di qual famiglia,
     Che pensi far di lui, com’habbia nome?
     La misera si scusa, e scopre il tutto,
     E de l’inganno altrui miete mal frutto,

Non crede, che di Giove egli sia nato,
     Anchor che chiaro il mostri nel sembiante,
     Ma che l’habbia la figlia generato
     Di qualche ardito, e temerario amante.
     E per fuggir di novo il tristo fato,
     Rinchiude lei co’l figlio in uno istante
     Dentro un’arca ben chiusa, e in mar la getta,
     E crede al Re del mar la sua vendetta.

Di vendicarlo molto non si cura,
     Ne Protheo, ne Triton, Teti, ò Portuno,
     Anzi particular di Perseo cura
     Prende, e di Danae il zio d’ambo Nettuno.
     E fa l’arca del mar sorger sicura
     In Puglia, ove regnava il Re Piluno.
     Tanto, ch’un pescator (ch’ ivi trovolla)
     Poi che l’hebbe scoperta, al Re portolla.

Come il cortese Re vide, et intese
     La bella madre, e ’l dolce ardito figlio,
     E la progenie lor gli fu palese,
     E quale havean nel mar corso periglio;
     De la venusta giovane s’accese,
     E di sposarla al fin prese consiglio.
     Al Signor di Sirifo il figliuol piacque,
     E’l cortese Pilunno gliel compiacque.