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Pagina:Ovidio - Le metamorfosi.djvu/151

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Stupisce Atlante, ch’un sia tanto ardito,
     Che non tema l’horror di quella porta,
     Che ’l suo dragone ogn’uno ha sbigottito,
     Tanto v’ha gente avelenata, e morta.
     Come ha il suo intento, e ’l suo lignaggio udito,
     Con vista il guarda disdegnosa, e torta,
     Che la stirpe di Giove ha in odio, e teme
     Per quel, che già in Parnaso udì à Teme.

Verrà un figliuol di Giove un giorno Atlante,
     (Gli disse) ove il giardin tant’oro asconde,
     Che spoglierà le tue superbe piante
     De’ frutti d’or, de’ rami, e de le fronde.
     Però con voce acerba, et arrogante,
     À l’odioso peregrin risponde.
     Sia da te lunge Giove, e questo muro,
     Di tue nove, e tue glorie io non mi curo.

Prega il figliuol di Giove, et ei minaccia,
     Al fin crucciato il risospinge, e sforza.
     Tanto, ch’ irati vengono à le braccia,
     Ma chi d’Atlante agguagliar può la forza?
     Perseo trahe fuor la stupefatta faccia,
     Ch’à chi la vede immarmora la scorza.
     Egli portava al fianco ogni hor Medusa
     In un sacco di cuoio ascosa, e chiusa.

Non ha il Greco di Palla il raro scudo,
     Ch’ à l’arcion pegaseo legato pende,
     C’havendol può mirar quel mostro crudo,
     E fa, che non s’ insassa, e non l’offende.
     Hor quando il fa restar del zaino ignudo,
     Per ammutir quel Re, con cui contende;
     Chiude le luci, e ’l tergo à serpi volto,
     Gli oppone in faccia il dispietato volto.

Come in quel viso, in quei viperei toschi,
     Che pendon de lo spirto ignudi, e cassi,
     Intende gli occhi incrudeliti, e foschi,
     Cresce Atlante di pietra, e un monte fassi.
     La barba, e i neri crin diventan boschi,
     E le parti più dure si fan sassi,
     Le vene restar vene, e fer nel monte
     Il sangue distillarsi in più d’un fonte.

Ogni suo picciol pel, c’havea su’l dosso,
     D’herba fessi humil pianta, ò verde arbusto.
     Divenne un duro sasso il nervo, e l’osso,
     La costa, il dente, l’anca, il braccio, e ’l busto.
     Fù cima il capo, e ’l piè formar più grosso
     Le piante, atto sostegno al grave fusto.
     Hor il giorno, e la notte al caldo, e al gielo
     Tutto sostien con tante stelle il cielo.

Come Perseo à Medusa ha posto il manto,
     Apre le luci, e si rivolta, e vede
     Un monte, che non v’ era, e s’alza tanto,
     Che su’l suo dosso il ciel si posa, e siede.
     Pensa gir poi per ristorarsi alquanto,
     Dove scorge un villaggio, e move il piede
     Verso il cavallo alato, e in aria poggia,
     E vi giunge in un volo, e quivi alloggia.

Tutte servito havean la scura Notte
     Ad una ad una già l’Hore notturne,
     E l’Aurora le tenebre havea rotte,
     Spargendo i fior con le sue mani eburne,
     E togliea da le case, e da le grotte
     Tutti i mortali à l’opere diurne;
     Quando su’l pegaseo veloce ascese
     Perseo, e per l’Ethiopia il volo prese.

Su l’Ocean scopria già il Cefeo lido,
     Dove Cassiopea troppo hebbe orgoglio,
     Quando più d’un lamento, e più d’un strido
     S’udì tutto empir l’aere di cordoglio.
     Perseo rivolge gli occhi al flebil grido,
     E vede star legata ad uno scoglio
     Una infelice vergine, che piange
     Per lo timor, che la tormenta, et ange.

Ó sententia di Giove, ò sommo padre
     Come la tua giustitia (oime) consente,
     Che per l’error d’una orgogliosa madre,
     Patir debbia una vergine innocente ?
     Fù di bellezze già cosi leggiadre,
     E di si altiera, e gloriosa mente
     La madre di colei, ch’à la catena
     Piange l’altrui delitto, e la sua pena.