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Pagina:Ovidio - Le metamorfosi.djvu/153

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Si come legno in mar, c’ hà in poppa il vento,
     Et ogni vela inalberata, e piena,
     Se’n vien non men veloce, che contento
     Per posseder la desiata arena:
     Così quel mostro vien presto, et intento
     Per trangugghiar si delicata cena,
     E brama posseder l’amato lito
     Per contentar l’ingordo empio appetito.

L’innamorato giovane, che mira,
     Che ’l pesce con ingorde, et empie voglie
     À quello sventurato scoglio aspira,
     Per torre à lui la convenuta moglie:
     Gli vola incontra, e intorno poi l’aggira,
     Per ottener da lui l’opime spoglie,
     E per ritrar dal suo ferir più frutto,
     Prima, ch’ investa, il riconosce tutto.

L’ ombra nel mar de l’huomo, e del destriero
     Vede la belva mostruosa, e strana,
     E lascia il cibo sensitivo, e vero,
     Per seguir l’ombra fuggitiva, e vana.
     Perseo su l’animal presto, e leggiero
     Verso il celeste regno s’allontana,
     Cala poi, qual l’astor sopra la starna,
     Ma l’hasta nel suo tergo non s’ incarna.

Qual se l’augel di Giove in terra vede
     Godersi al Sol l’intrepido serpente,
     E pensa por su lui l’avido piede,
     Gli va da tergo, e d’afferrar pon mente
     Con l’unghia la cervice, onde non crede
     Che voltar possa il venenoso dente:
     Tal Perseo il fiero Ceto offende, e preme
     In quella parte, onde men danno teme.

S’accorge al fin, che se mill’anni stesse
     À percotergli il dosso con quel pino,
     Ó con lo stocco offender si credesse
     Quello squamoso scoglio adamantino,
     Sarebbe come, s’un fender volesse
     Con una spada l’Alpe, ò l’Apeninno.
     Tanto, che di ferirlo in parte loda,
     Ch’al mostro dia più danno, à se più loda.

Quando egli tutto riconobbe intorno
     L’horrendo pesce, ne la fronte scorse
     Le due fenestre, ond’egli prende il giorno,
     Ch’eran di tal grandezza, che s’accorse,
     Ch’ivi maggiore à lui far si potea scorno,
     E innanzi à gli occhi suoi subito corse.
     Lo smisurato Ceto il morso stende
     Per inghiottirlo, e Perseo al cielo ascende.

La lancia gli havea pria rotta su’l dosso,
     Ma teneva à l’arcion sospeso un dardo,
     E con quel contra l’aversario mosso
     L’aventa in mezzo à l’inimico sguardo.
     Il pesce appunto in quel, che fu percosso
     Volle abbassare il capo, ma fu tardo.
     Che con tal forza Perseo il braccio sciolse,
     Ch’in quel, che’l mostro il vide, il dardo il colse.

Il ferro non trovò la squama dura,
     E penetrò ne l’occhio alto, et intento,
     Tal, che non sol fe la pupilla oscura,
     Ma gli die tal dolore, e tal tormento,
     Che del tutto lasciò la prima cura,
     E diessi à vendicare il lume spento.
     Di vendetta desio per l’aria il tira
     Dove volare il suo nemico mira.

Vorrebbe il grave peso andare in alto
     Per vendicar la scolorata luce,
     E ne l’aria gli dà più d’uno assalto,
     Ma ’l troppo peso abbasso il riconduce.
     E nel cader fa l’acqua andar tant’alto,
     Che pone in dubbio il valoroso duce,
     S’egli co’l suo destrier per l’aria vola,
     Ó se nuota nel mar fin’ a la gola.

Conosce ben che l’inimico offeso
     Di vendetta desio preme, et invoglia,
     E se non gliel vetasse il troppo peso,
     Vendicheria la sua soverchia doglia,
     Ma s’alza alquanto, e poi cade disteso,
     E men col salto và, che con la voglia.
     Perseo mostra fuggir volando basso,
     E ’l tira in alto mar lunge dal sasso.