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Pagina:Ovidio - Le metamorfosi.djvu/169

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Deh Perseo contentatevi haver vinto,
     Deh nascondete il venenoso mostro,
     Perch’odio à prender l’armi non m’ hà spinto,
     Ne desio di regnar nel clima nostro:
     Ma bene un’ amor nobile, e non finto,
     M’armò contra il maggior merito vostro,
     Per quella, ch’à voi sposa il valor diede,
     Et à me il padre, il regno, e la sua fede.

Di non l’haver ceduta à voi mi pento,
     E in tutto à me dò torto, à voi ragione.
     Deh non mi fate l’horrido spavento
     Veder de la sassifica Gorgone.
     Quest’anima, ond’io formo questo accento,
     Lasciate anchor ne la carnal prigione,
     Non fate questa vita un simulacro,
     E tutta al vostro Nume io la consacro.

À quei si caldi preghi si commosse,
     Il cortese, e magnanimo guerriero,
     E discorse fra se, che ben non fosse
     Di perder cosi nobil cavaliero.
     Ma ne la mente un dubbio gli si mosse,
     Che ’l fe sospeso alquanto nel pensiero,
     Ch’ei sol potea, d’ogn’un più illustre, e degno
     Porgli in dubbio ogni dì la sposa e ’l Regno.

Mentre dubbio pensiero ingombra il petto
     À chi nacque di Danae, e pioggia d’oro:
     E da l’un canto il domina il sospetto
     Di non perder il doppio suo thesoro,
     Da l’altro il move un virtuoso affetto
     Di compiacere al supplicante Moro.
     Che non è ben, ch’un vincitore offenda
     Un, che si chiami vinto, e che s’arrenda.

Ode, che Fineo alza la voce, e dice
     Oime, c’hò fatto, e in là la testa volta.
     E mentre anchor pregar vuol l’infelice,
     Sente, che più non hà la lingua sciolta.
     E toccandogli il collo, e la cervice
     Trova, che ’l sasso gli hà la carne tolta,
     Anchor tien con le man gli occhi coperti,
     È ver, che v’à due diti alquanto aperti.

Ó che fosse la voglia di scoprire
     Chi sia colui, ch’à perdonargli essorta,
     Ó pur perch’havea voglia di fuggire,
     Ma non sapea dove trovar la porta,
     Come volle la luce alquanto aprire,
     Vide del Re del mar l’amica morta,
     E fattosi da se del tutto cieco,
     Ogni sospetto tolse al dubbio Greco.

Perseo vittorioso il zaino prende,
     E vi ripon la testa infame, e truce,
     E lieto à suoi consorti il giorno rende,
     Che chiusa insino allhor tenner la luce.
     Poi l’amor de la patria si l’accende,
     Che seco la consorte vi conduce.
     Non và su’l Pegaseo, che s’era sciolto,
     Ne sapea dove il vol s’havesse volto.

Seppe per via, che Preto, empio suo zio
     D’Argo, e del regno havea tolto il governo
     À quel, che più d’ogni altro iniquo e rio
     Con la madre il die in preda al mare, e al verno.
     Ma l’atto empio, e mortal posto in oblio
     De l’avo immeritevole materno,
     D’armarsi contra il zio fece disegno,
     E l’avo ingiusto suo ripor nel regno.

L’arme non gli giovar, ne la gran forza,
     Ch’Argo contra Perseo gia non difese,
     Che ’l miser fe di marmo un’ altra scorza,
     Come ne l’empio crin le luci intese.
     Poi nel mare alternò la poggia, e l’orza,
     E ver l’iniquo alunno il camin prese,
     Il qual con empio fin gli die consiglio,
     Che s’esponesse à cosi gran periglio.

Non fu raccolto Perseo con quel viso,
     Che gli parea, che richiedesse il merto,
     Anzi quando egli disse, fu deriso
     D’haver quel mostro seco, ma coperto.
     Diss’ei creder non vuoi, ch’io l’habbia ucciso,
     Ma te ne voglio dar pegno più certo,
     Subito afferra in man l’horribil’ angue,
     E fallo dura selce senza sangue.