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Pagina:Ovidio - Le metamorfosi.djvu/192

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Ma fu ben ne la Lidia io ogni parte
     Famosa nel Palladio almo artificio.
     Ne’l far fil de la lana, e ’n ogni parte,
     Che serve al necessario lanificio,
     Tutte avanzò le donne di quell’arte
     Di bontà, di splendor, d’ogni altr’officio,
     Ma quanto ogni altra superò costei,
     Tanto la figlia Aranne avanzò lei.

Lasciaro spesso il monte di Timolo
     Con le piante vinifere Liee
     Di tutti i Numi abbandonato, e solo
     Le Driade, l’Amadriade, e le Napee;
     Sovente abbandonaro Hermo, e Pattolo
     Le risplendenti, e cristalline Dee;
     Sol per veder come la dotta Aranne
     L’eletissime fila insieme impanne.

Perche non sol la tela ben contesta
     Facea stupire ogn’un di maraviglia,
     Onde si vaga uscia più d’una vesta,
     Ch’à rimirar vi si perdean le ciglia,
     Ma veder come un fil con l’altro innesta,
     Se fila, come il tende, e l’assottiglia,
     Rendeva ogn’un, che v’havea l’occhio intento
     Tutto in un punto stupido, e contento.

Stupite le Napee dicean fra loro,
     Con si gran studio ella il suo studio osserva,
     E mesce cosi ben la seta, e l’oro,
     E tutto quel, che l’arte amplia, e conserva,
     Che mostra ben che dal celeste choro
     Discesa ad insegnarle sia Minerva.
     Ella superba il nega, e tiensi offesa,
     D’haver da si gran Dea quell’arte appresa.

Venga dicea la Dea saggia, e pudica,
     S’osa di starmi al par, qui meco in prova,
     Che con ogni sua industria, ogni fatica,
     Troverà l’arte mia più rara, e nova.
     Buona fu già la sua scientia antica,
     Ma ’l mio lavor l’uso moderno approva.
     E se meglio la Dea vuol, ch’ io gliel mostri,
     Armisi, e comparisca, e meco giostri.

Come dal monte pio Minerva scende,
     E lascia l’ immortale alma foresta,
     E l’orgoglio d’Aranne anchora intende,
     E come l’arte, e lei biasmar non resta;
     D’una attempata vecchia il volto prende,
     Crespa la pelle fà, calva la testa,
     Curva, e debil ne và carca d’affanni,
     E mostra al volto haver più di cent’anni.

Regge sopra un baston l’antico fianco,
     E và, dove la vergine lavora,
     E con inchino humil, debile, e stanco,
     Con ogni mostra esterior l’honora;
     Poi come quella, c’ha quei denti manco,
     Che balbo fanno anchor l’accento fuora,
     Alzando verso lei l’afflitto aspetto,
     Un suono articolò non molto schietto.

Se ben l’età senil, debile, e inferma
     Infiniti dispregi al vecchio apporta,
     S’ ha per opinion fondata, e ferma,
     Che non s’ hà in tutto à riputar per morta:
     Perche la prova, ove si fonda, e ferma,
     La fa de l’altre età più saggia, e accorta.
     Si che non disprezzar, ma da l’orecchia
     Al consiglio fedel di questa vecchia.

Non si può dir se non, che troppo ardisca,
     Sia chi si sia quà giù nato mortale,
     Che con parole indebite s’arrisca
     Di chiamarsi à gli Dei celesti eguale.
     Onde, perche l’error tuo non punisca,
     À la vergine saggia, et immortale
     Chiedi mercè, dapoi che tu non sei,
     Sì come ti sei fatta, eguale à lei.

Bastiti haver nel mondo in ogni parte
     Fra le genti terrene il primo honore,
     In questa, che trovò tant’utile arte
     La Dea de la prudenza, e del valore.
     Ma cedi à l’immortal soror di Marte
     Tu, che sei nata nel mortale errore,
     E duolti seco homai del troppo orgoglio,
     Ch’ella mercede havrà del tuo cordoglio.