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Pagina:Ovidio - Le metamorfosi.djvu/195

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Già questa altera madre si diè vanto
     D’esser più d’ogni gratia adorna, e bella,
     Nel tempio di Giunon divoto, e santo,
     Di lei del maggior Dio moglie, e sorella.
     À l’iraconda Dea dispiacque tanto,
     Che le tolse l’effigie, e la favella,
     L’allungò il collo, e ’l piè, l’impiumò poscia,
     Dal rostro, che le fe fino à la coscia.

S’era à costei pur dianzi ribellato
     Quanto il regno Pigmeo dominio serra.
     Ond’ella havea (per racquistar lo stato)
     Fatta una lega, e mossa una gran guerra.
     Poi se ben le fu il pel trasfigurato,
     I popoli assaltò de la sua Terra,
     I quai son’ alti un piede, e mezzo, ò due,
     Et hoggi anchor la guerra han con le grue.

Questo il superiore angulo manco
     Pinge lavor, ma il destro inferiore
     Mostra, ch’Antigonea non hebbe manco
     Vano superbo, e glorioso il core.
     Più illustre haggio il volt’ io vermiglio, e bianco,
     (Disse) e di maestade, e di splendore,
     E di mill’altre parti altere, e nove
     De la gelosa Dea moglie di Giove.

Ma se fa la Pigmea venire un mostro
     Giunon (perpetua à lei noia, e vergogna)
     Ben tolse à questa anchor le perle, e l’ostro,
     Per la tropp’alta gloria, ov’ella agogna,
     Le fe sottil lo stinco, il collo, e ’l rostro,
     E la forma le die d’una cicogna,
     Ne le giovò l’allhor temuta mano
     Del padre Laomedonte Re Troiano.

L’angulo inferior destro dipinge
     L’ ira celestial, la costei pena.
     Ma il manco inferior figura, e pinge,
     Come Giunon un’ altro orgoglio affrena.
     Quanto l’imperio Assirio abbraccia, e cinge
     Fra il regno Medio, e la Tigrina arena
     Cinara resse gia lieto, e felice,
     Se mesto no’l rendea Giunone ultrice.

Fur già si vaghe, gratiose, e belle
     Le figlie del Re Cinara, e si dive,
     Quant’altra, di cui il mondo hoggi favelle
     Ó per voci Romane, ò voci Argive.
     Ma fur ben’ empie à par d’ogni altra, e felle,
     E d’ogni ben de l’ intelletto prive,
     Ch’osar dirsi più belle, e piu leggiadre
     De la di Marte, et d’Hebe altera madre.

Troppo prende la Dea d’ ira, e di sdegno,
     E forza è, che lo sfoghi, è che lo scopra,
     Vò sodisfare al vostro animo indegno
     (Disse) secondo il fine ond’egli adopra,
     E vò, ch’ogni vil’ huom del vostro regno
     Et ogni altro stranier vi zappi sopra.
     Quel bel, c’havete al mio Nume preposto,
     Vò, che ad ogni vil piè sia sottoposto.

Innanzi à le gran porte del suo tempio
     Con rabbia, e con furor le corca, e stende,
     E con lor troppo obbrobrioso scempio
     Scale del tempio suo le forma, e rende.
     Tal, che su’l sasseo dosso il buono, e l’empio
     E quando entra, equand’esce, hor sale, hor scende,
     Quell’uniche bellezze alme, e supreme
     Ogni indiscreto piè calpesta, e preme.

Frenate alteri Heroi l’ ingiusto orgoglio
     Con un ben forte, e ben tenace freno,
     Armate il cor d’amore, e di cordoglio,
     E non d’ambitione, e di veleno,
     Si che l’ira di Dio non dica, Io voglio
     D’ogni huom più abietto, e vil farvi da meno,
     E de l’honor vi privi, e del reame,
     E faccia obietto ad ogni riso infame.

Come al misero padre si riporta,
     Che l’ infelici figlie son di sasso,
     E che, chi và per la sacrata porta,
     Pon su’l lor dosso il non pietoso passo;
     Piangendo ad abbracciar la pietra morta
     Corre, e resta di spirto ignudo, e casso.
     Statua si fa, che si consuma, et ange,
     E sù le figlie immarmorate piange.