Vai al contenuto

Pagina:Ovidio - Le metamorfosi.djvu/197

Da Wikisource.

Dipinge poi come la bella Egina
     Figlia d’Asopo andando un giorno à caccia
     Ne la stagion, che la gelata brina
     Ne’ più piccioli giorni il mondo aggiaccia,
     Essendo da la gelida pruina
     Tutta trafitta à caso alza la faccia,
     Dove sù un colle in uno ombroso loco
     Scorge fra tronco, e tronco ardere un foco.

Subito và la misera donzella
     Per disgombrar da se l’horrido verno,
     À ritrovar l’incognita facella,
     Dove il foco splendea nel bosco interno.
     Presa di fiamma havea forma novella
     Per goder questa Egina il Re superno,
     Si scalda, e stà la gelida fanciulla,
     E co’l caldo di Giove il verno annulla.

Mentre, ch’ella si scalda, e maraviglia,
     Come l’accesa fiamma arda si sola,
     Giove la vera sua sembianza piglia,
     Et ad Egina il fior virgineo invola,
     Gravida lascia poi la bella figlia,
     Et à l’ imperio suo contento vola,
     E la pittura è si distinta, e certa,
     Che tutta questa fraude mostra aperta.

Mostra poi come in forma di Pastore
     La bella Nimosina inganna, e gode,
     L’ultimo, che dà fuor di Giove amore,
     Discrive di più infamia, e di più frode,
     Ch’arse (se à creder s’hà) d’un tale ardore,
     Che del più rio non si ragiona, ò s’ode,
     D’una arse il Re de l’anime beate,
     Quale era figlia à lui, consorte al frate.

Mentre gode Proserpina la luce
     Del pianeta più chiaro, e più giocondo,
     S’ innamora di lei l’Ethereo Duce,
     Quel, che del seme suo la diede al mondo.
     Quell’animal si forma ei, che conduce
     Serpendo altero il suo terrestre pondo,
     E dove vede lei seder su l’herba,
     Serpe d’or con la testa alta, e superba.

Non teme la Regina d’Acheronte
     Del serpe altier, del lucido, e de l’oro,
     Che per l’ imperio, c’ hà di Flegetonte,
     À l’ Erinni comanda, e à serpi loro,
     Poi che non sà, che la viperea fronte
     Nasconde il Re del sempiterno choro,
     Per pigliarlo, se’ può, l’attende al varco,
     Ch’arricchir vuol di lui lo stigio parco.

Lieto pigliar si lascia il serpe, e prende
     Piacer di lei, che se l’ hà posto in seno,
     Poi dal foco instigato, che l’accende
     Deposto ogni vipereo empio veneno,
     Con la forza celeste la distende
     Sopra l’herboso, e morbido terreno,
     E si vedea nel panno manifesto
     Un si nefando, e obbrobrioso incesto.

Scoperti c’ ha gl’ ingiuriosi danni
     Del maggior Dio, che l’universo move,
     Pinge mill’ altri furti empi, e tiranni,
     E si volge à Nettuno, e lascia Giove,
     Ch’anch’ei rivolto à muliebri inganni
     Ogni dì si vestia di forme nove,
     Si fe un’ Ubin nel regno di Sicano
     Dove ingannò la Dea del miglior grano.

Che tosto, ch’ei se la sentì su’l dorso,
     Cominciò sù l’arena à passeggiare,
     La trasse al fin contra il voler del morso
     Fuor del lito Sican per l’alto mare;
     E sopra un duro scoglio frenò il corso,
     Per l’amoroso suo desio sfogare.
     Pinge la lana poi, la seta, e l’oro
     Come l’ istesso Dio si fece un toro.

Che d’ Eolo una leggiadra, e bella figlia
     Dett’Arne, con quel pelo inganna, e porta,
     Del fiume Enipeo poi la forma piglia,
     Sopra il cui lito una fanciulla hà scorta
     De la troppo superba, e rea famiglia
     Di Salmoneo, che sola si diporta,
     E di lei ne la forma d’Enipeo
     Due figliuoli acquistò Pelia, e Neleo.