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Pagina:Ovidio - Le metamorfosi.djvu/201

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Ovunque la ricca Asia dona il letto
     À l’onde Frigie, il mio nome corregge,
     La region, ch’à Cadmo diè ricetto
     Di Niobe, e d’Anfion serva la legge.
     Ovunque volgo il mio Reale aspetto
     Nel sasso, dove albergo il miglior gregge,
     Tutto veggio splendor, tutto thesoro,
     Ostro, perle, rubin, smeraldi, et oro.

Aggiungi à questo il mio splendor del viso,
     Che mostra, co’l Divin, che vi risplende,
     Ch’ io de l’elette son del paradiso,
     Come sà ogn’un, ch’ in me le luci intende.
     L’albergo è tutto gioia, e tutto riso,
     Altro, che canto, e suon non vi s’ intende.
     La prole mia dotata d’ogni honore
     Sette generi aspetta, e sette nuore.

Vi par, ch’aggiunga à l’alta gloria nostra
     Quella, à cui tant’honor rendete, e fede,
     Io parlo de la Dea Latona vostra,
     Che si mendica al mondo il padre diede:
     Che del sito, ch’al ciel la terra mostra,
     Mentre egli intorno la circonda, e vede,
     Negò di darne à lei tanto terreno,
     Che bastasse à sgravar del parto il seno.

Darle un ricetto minimo non volse
     Ne la terra, onde uscì, ne’l mar, ne’l cielo,
     Sol la sorella instabil la raccolse,
     Quell’ isola, che poi fu detta Delo,
     La qual dal volto human già si disciolse,
     E piuma aerea fe del terreo pelo,
     E poi si come piacque al maggior Nume,
     Un mobil sasso in mar fe de le piume.

Vagar vedendo Ortigia la sorella,
     E ch’ogni loco, ogni terren la scaccia,
     Mobile essendo, et vagabonda anch’ella,
     Vicino al lito, ove correa, si caccia:
     Poi rompe in questi accenti la favella.
     Sirocchia mia co’ piedi, e con le braccia
     Sostienti, e nuota, e monta su’l mio tergo,
     Ch’ io ti darò sul mobil dorso albergo.

Ben hebbe il suo ascendente quando nacque
     Ciascheduna di noi mal fortunato,
     Vagabonde ambe siam, si come piacque
     Al nostro infausto, inevitabil fato;
     Tu vaghi per la terra, et io per l’acque,
     E fermar non possiamo il nostro stato,
     Ma se ’l mio mobil dorso il tuo piè preme,
     Ce n’andrem per lo mar vagando insieme.

Cosi l’essule Dea vostra mendica
     Da un’altra sventurata hebbe ricetto,
     Vi montò sù con pena, e con fatica,
     E senza altra ostitrice, e senza letto
     Lucina havendo al partorir nemica,
     Che tenea il pugno incatenato, e stretto,
     Dopo mill’alti stridi, e mille duoli
     Fece al mondo veder due figli soli.

Veder fe al mondo la settima parte
     Di quella, che gli hò fatta veder’ io,
     Considerate dunque à parte, à parte,
     Qual’ è maggior, ò ’l suo splendore, ò ’l mio.
     D’ogni più raro don, che ’l ciel comparte,
     Che può felicitar lo stato à un Dio,
     Son felice hor, sarò felice sempre,
     Mentre rotin del ciel l’eterne tempre.

Chi la felicità negar presente
     Può? chi può dubitar de la futura?
     L’una, e l’altra sarà perpetuamente,
     L’abondanza del ben mi fa sicura.
     Tanto beata son, tanto possente,
     Che del destin non tengo alcuna cura:
     Perch’ io maggiore assai son di quell’una,
     À cui non può far danno la fortuna.

E quando à questo mio stato tranquillo
     Voglia l’empia fortuna esser molesta,
     Non potrà mai talmente convertillo.
     Che non sia più del suo quel, che mi resta.
     Poniam, che contra me spieghi il vessillo,
     E che mi toglia anchor più d’una testa,
     Non però vincitrice la farei,
     Che perdendone molti anchor n’havrei.