Vai al contenuto

Pagina:Ovidio - Le metamorfosi.djvu/225

Da Wikisource.

Per questa via pensò l’empio tiranno
     Vendicarsi di lei, che lo scherniva,
     E per fuggir l’enorme infamia, e ’l danno,
     Ch’ei n’era per haver, se si scopriva,
     E per potersi lei goder qualch’anno,
     Se ben senza parlar la tenea viva.
     Ó giustitia di Dio, come permetti
     Si nefandi pensier ne’ nostri petti.

Ó ferina lascivia, ò mente infame,
     Più volte dopo (à pena il credo) ei volse
     Seco sfogar le sue Veneree brame,
     Se ben con varij moti ella se ’n dolse.
     Sicuro il Re, che più non si richiame,
     De lacci, onde era avinta, la disciolse,
     La qual con muto, e lagrimoso duolo
     Sparse di pianto, e sangue il petto, e ’l suolo.

À la più alta stanza al fin la guida,
     E quivi à tutti gli occhi la nasconde,
     Ad una vecchia poi le chiavi fida,
     La qual con cenni soli ode, e risponde:
     Parla accennando il Re, ch’ ivi l’annida,
     Perch’altri à veder lei non venga altronde.
     E ch’à lei serva, e plachi il suo cordoglio,
     Ma che non le dia mai l’ inchiostro, e ’l foglio.

Vedendo il Re l’Aurora aprir le porte
     Ne l’Oriente al raggio matutino,
     Et havendo fidata la sua corte
     Per soccorso di Cipro al mare, e al pino,
     Quando volle tornarsi à la consorte,
     Sconosciuto montò sopra un’ ubino,
     Coprì co’l manto il volto, e volse il tergo
     Al rio serraglio, e giunse al regio albergo.

Sopra l’ubin giunse al palazzo, e scese
     Con due staffieri Eunuchi, ch’indi tolse.
     Come la giunta sua la moglie intese,
     Con l’accoglienze debite il raccolse.
     D’intorno Progne intanto i lumi intese,
     E subito al parlar la lingua sciolse,
     E dimandò de la sorella, e poi
     Diè l’occhio anchor, s’alcun vedea de suoi.

Detto che l’hebbe, come la sua gente
     À l’ isola di Cipro havea mandata,
     Per dar qualche soccorso al lor parente,
     Ch’intorno al regno havea la Tiria armata;
     Lasciando uscir più d’un sospiro ardente,
     Disse, m’havea la tua sorella data
     Il giusto padre tuo cortese, e pio
     Per satisfare al tuo contento, e al mio.

Già possedea l’armata il mare Egeo,
     E credea d’acquistar quel giorno Sesto,
     Quando un Borea importuno il mar rendeo
     Si grosso, che fe ogn’un turbato, e mesto.
     E come piacque al fato iniquo, e reo,
     Perche à calar l’antenna non fu presto,
     Il pin, ch’ella premea, co’l popol Greco
     Andò sott’acqua, e ogn’un sommerse seco.

I paggi, le donzelle, e gli altri Achivi,
     Che seco il padre tuo mandati havea,
     Furo involati al numero de vivi
     Per mio perpetuo mal da l’ onda Egea.
     Che da che fur di lei gli occhi miei privi,
     Per la rara virtù, ch’in lei splendea,
     Io ne rimasi addolorato tanto
     Ch’altro da indi in quà non fui, che pianto.

Con sospiri, e con lagrime accompagna
     Il traditore il gesto, e la parola,
     E ’l suo volto bugiardo irriga, e bagna,
     E fede acquista à la mentita gola.
     Da lui la mesta Progne si scompagna,
     À tutti gli occhi subito s’ invola,
     E de le stanze sue chiusa ogni porta,
     Piange morta colei, che non è morta.

Quivi ella apre la strada al suo lamento,
     E chiama il nome suo più volte in vano,
     E del mare, e de l’arbore, e del vento
     Si duole, e del suo fato acerbo, e strano.
     Ne manca d’accordar l’afflitto accento
     Co’l suon, che rende il batter mano à mano.
     E non fuor di ragion per lei si dole,
     Ma non già con le debite parole.