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Pagina:Ovidio - Le metamorfosi.djvu/228

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Poi che ’l chiamar più volte empio, e scelesto,
     E maledir la sorte iniqua, e fella,
     Alzando Progne il volto irato, e mesto
     Ruppe con più coraggio la favella.
     Mai frutto alcun noi non trarrem da questo
     Lamento, e duol mestissima sorella.
     Ma il nostro mal (se trar ne vogliam frutto)
     S’hà da sfogar co’l ferro, e non co’l lutto.

Non hai punto à temer, che non si mande
     À fin da me questa vendetta tosto,
     Che non è sceleraggine si grande,
     Ch’ io non vi trovi l’animo disposto.
     Ó ch’à queste pareti empie, e nefande
     Darò foco una notte di nascosto,
     Si che veggiam, per satisfarsi un poco
     Ardere il malfattore in mezzo al foco.

Ó gli trarrò quelle impudiche luci,
     Ch’ à l’amor scelerato aprir le porte,
     E à l’empio Re fur consigliere, e duci,
     Che facesse un’ error di questa sorte:
     Ó troncherò le mani infami, e truci,
     Ch’ offeser la cognata, e la consorte,
     Che fecer torto al coniugale amore,
     E con la lingua à te tolser l’honore.

Perch’altra donna più non sia tradita
     Da lui, perch’ impunito non ne vada,
     Non resterò, ch’ io gli torrò la vita
     Ó co’l foco, ò co’l tosco, ò con la spada.
     Mentre con questo dir l’offesa invita
     À far che l’offensor punito cada
     Iti si mostra, un’ innocente figlio
     Di Progne, e prender falle altro consiglio.

Viene à trovar la madre irata, e mesta
     Iti (cosi il nomar) con lieto viso,
     E per haver da lei carezze, e festa
     La guarda, e madre appella, e move il riso.
     La madre infuriata il guardo arresta
     Nel noto volto, e con tropp’empio aviso
     (Poi che rivolse gli occhi à Filomena)
     Disse con maggior rabbia, e maggior pena.

Quanto simiglia al padre empio, e tiranno
     Questa infin da fanciullo iniqua vista,
     Quanta vuol far’ anch’ei vergogna, e danno
     Altrui, se gli anni mai del padre acquista.
     Anch’egli renderà con forza, e inganno
     La moglie, e la cognata afflitta, e trista.
     Questi, sorella, è la dannosa prole
     Di chi l’honor ti tolse, e le parole.

Bagna di doppio pianto allhor le gote
     La sorella minor, che le soviene
     Quanto bramò veder questo nipote
     Quando lasciò la mal lasciata Athene.
     Hor vede lui, sente le balbe note,
     E vorria fargli vezzi, e si ritiene.
     L’amor del sangue à ciò l’instiga, e accende,
     Ma l’odio, e l’error Tracio la riprende.

E tanto più, che vede il fero aspetto,
     Onde la madre ingiuriata il mira,
     Che teme non le dar noia, e sospetto,
     Tal che per cagion doppia si ritira.
     Si gitta disperata sopra un letto,
     E con doppio dolor piange, e sospira,
     Dove in Grecia pensò, che quel fanciullo
     Esser dovesse in Tracia il suo trastullo.

Si china intanto l’empia genitrice,
     E distende al figliuol l’inique braccia,
     Per far la sceleraggine infelice,
     Ch’al figlio, e al genitor danno minaccia.
     L’ innocente figliuol si porge, e dice
     Più volte madre, e poi dolce l’abbraccia,
     E non sapendo il mal, ch’ella l’appresta,
     La bacia, le ragiona, e le fa festa.

Come il dolce figliuol la lingua move
     Ver lei vinta da l’ ira, e da la doglia,
     E le fa mille scherzi, e mille prove
     À fin, che dolcemente ella il raccoglia;
     Una nova pietà si la commove,
     Che la fa lagrimar contra sua voglia,
     E l’ ira, che nel volto havea dipinta,
     Fù da nova pietà scacciata, e vinta.