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Pagina:Ovidio - Le metamorfosi.djvu/238

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E par, che voglia dir, s’ ho dal cor bando,
     Per dar luogo à l’imago, ov’ il lum’ergo,
     Novo ricorso, e patria ti dimando
     In quella luce, ov’io mi specchio, e tergo.
     Perch’io non vada eternamente errando,
     Donami entro al tuo seno un novo albergo.
     Se in bando io son per te, giusto è il mio grido,
     Se chieggo in ricompensa un novo nido.

Oime, ch’ in tutto io son fuor del mio core,
     E pur penso, discorro, et argomento,
     E bramo à l’amor mio gratia, e favore,
     Perche del suo desio resti contento.
     Questi son de’ miracoli d’Amore.
     Ch’io son priva de l’alma, e veggio, e sento.
     Queste son cose pur troppo alte, e nove,
     Ch’io vivo fuor del core, e non sò dove.

Hor come la fanciulla accesa scorge,
     Con che guardo nemico il padre crudo
     Su’l libro il giuramento al Greco porge,
     Perche resti il suo cor de l’alma ignudo;
     Maggior l’amor, maggior la pietà sorge,
     E pensa farsi à lui riparo, e scudo.
     Per salvar quelle membra alme, e leggiadre,
     Pensa d’opporsi à quel, che debbe al padre.

Per lo giorno seguente la battaglia
     Promette il Re, poich’ei n’è tanto vago,
     E porlo dentro à la fatal muraglia,
     Contra i tori fatali, e contra il drago.
     Ben s’era accorto il guerrier di Thessaglia,
     Ch’accesa era Medea de la sua imago.
     E per trarne favor, gratia, e consiglio,
     Mostrò sempre ver lei cortese il ciglio.

Per allhor si licentia ei da la corte,
     Prima dal vecchio Re, poscia da lei.
     E le dice pian pian, ben la mia sorte
     Felice sopra ogn’un chiamar potrei,
     S’io potessi haver voi per mia consorte,
     E condurvi mia donna à regni Achei.
     Però date favore al desir nostro,
     Poi come piace à voi, me fate vostro.

Non può celar le piaghe alte, e profonde,
     Ne l’aspra passion, che la tormenta
     Medea; ma senza favellar risponde
     Co i modi, e co i sospir, ch’ella è contenta.
     Partiti l’un da l’altro, ella s’asconde
     Ne la camera sua, ch’altri non senta,
     E datasi à l’amore in preda in tutto,
     Cosi dà varco à le parole, e al lutto.

Misera, qual fu mai si gran cordoglio,
     Che possa al dolor mio far paragone?
     Ch’io son sforzata, e faccia quel, ch’io voglio,
     D’opormi à la pietade, e à la ragione.
     Ben di ragione, e di pietà mi spoglio,
     Se ’l valor del magnanimo Giasone
     Lascio perir, ben’ hò di tigre, e d’orso
     Il cor, s’ io posso, e non gli dò soccorso.

La sua beltà, la sua fiorita etate,
     La nobiltà, il valor, l’ingegno, e l’arte,
     E tante altre virtù, che ’l ciel gli ha date,
     Che ’l fanno à nostri tempi un novo Marte,
     L’amor promesso, e le parole grate,
     Ond’io di tanto ben debbo haver parte,
     Ogni più crudo cor dovrian far pio,
     Di drago, e d’aspe, e maggiormente il mio.

E quando ei fosse anchor mortal nemico
     Di me, del padre mio, de la mia gente,
     Per sangue sparso suo, per odio antico,
     Per qual si voglia passion di mente;
     Di tante gratie havendo il cielo amico,
     Dovrebbe questo cor trovar clemente,
     Che non mandasser tanto ben sotterra
     I tori, e ’l drago, e i figli della terra.

Hor s’egli è ver, ch’ ei m’ami, come ha detto,
     D’un’ amor si sollecito, e si forte,
     Che mi giudica degna di quel letto,
     C’ha destinato per la sua consorte:
     Se non amo anch’io lui di pari affetto,
     S’ io non l’ involo à l’evidente morte;
     Non son più ingrata, perfida, e crudele,
     Che mai s’udisse in tragiche querele?