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Pagina:Ovidio - Le metamorfosi.djvu/240

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Ma non promette un tanto ignobil’ atto
     La sua virtute, e ’l suo nobil sembiante.
     Gli farò replicar più volte il patto,
     E vorrò haverne il giuramento avante.
     Chiamerò testimonij à mio contratto
     L’alme de le contrade eterne, e sante:
     E temer non dovranno i voti miei,
     Ch’ ei manchi à se medesmo, e à sommi Dei.

Mentre risolve à questo il dubbio petto,
     Se l’ appresenta il debito, e l’honore,
     La paterna pietate, e ’l patrio affetto,
     E dan vittoria al suo pensier migliore.
     Le ricordan (se viene questo effetto)
     Quel, che diran di lei le regie nuore.
     Sarà (se per tal via si fa consorte)
     La favola del volgo, e d’ogni corte.

Havea l’amor già ributtato, e vinto,
     E già fermato havea nel suo pensiero,
     Se ben dovea Giason restarne estinto,
     Di darsi in tutto à la ragione, e al vero.
     E havendo al casto fin l’animo accinto,
     Fuor del palazzo havea preso il sentiero,
     Per visitare à piedi il tempio santo
     D’Hecate, ond’hebbe già l’arte, e l’incanto.

Non have ne gli incanti in tutto ’l mondo,
     Maggiore alcun mortal dottrina, e fede
     Di lei, c’hor face il suo terrestre pondo
     Verso il tempio portar dal proprio piede.
     Intanto, più che mai bello, e giocondo
     Giason, che vien dal tempio, incontra, e vede.
     Humile ei la saluta; e fa, ch’anch’ella
     Gli rende l’accoglienza, e la favella.

Qual, se l’ingegno human gran foco ammorza,
     S’avien, che un sol carbon viva, e si copra,
     Poi gli apra il vento la cinerea scorza,
     Tanto che in fiamma il suo splendor si scopra,
     Racquista il vivo ardor, l’antica forza,
     E come pria divora i legni, e l’opra:
     Tal l’ascosa scintilla à l’alma vista
     Di lei l’antico suo vigore acquista.

Come vede il suo amato, e l’aura sente
     Del dolce suon de la soave voce,
     S’infiamma il foco occulto, e si risente,
     E come già facea, la strugge, e coce.
     Tal, ch’ella al casto fin più non consente,
     Ma si dà in preda à quel, che più le noce,
     E tanto più, che quel, ch’à ciò la chiama,
     Tutto giura osservar quel, ch’ella brama.

Gli porge accortamente un vel da parte,
     Dove eran chiuse alcune herbe incantate,
     E poi gl’insegna le parole, e l’arte,
     E ’n qual maniera denno esser usate.
     Sparir l’altro mattin Saturno, e Marte
     Havean del biondo Dio le chiome ornate,
     Quando Giason di quella guerra vago
     Comparse contra i tori, e contra il drago.

Convengon tutti i popoli d’intorno
     À rimirar l’insolito periglio,
     Stà in mezzo il Re di scettro, e d’ostro adorno
     Con empio core, e disdegnato ciglio.
     Compar di ferro intanto il piede, e ’l corno
     Contra d’Esone il coraggioso figlio.
     La fiamma de’ due tori empia, e superba
     Abbrucia l’aria, e strugge i fiori, e l’herba.

Come risuona, e freme una fornace,
     Mentre maggiore in lei l’ardor risplende,
     Come freme la calce, che si sface
     Mentre che l’acqua in lei l’ardore accende;
     Cosi mentre la fiamma empia, e vorace
     De’ tori il campo, e d’ogn’intorno offende
     Nel petto, ond’ ha il principio, e ’l proprio nido,
     Con perpetuo esshalar rinforza il grido.

Zappan co’l piede il polveroso sito,
     E fan correr per l’ossa à Greci il gielo,
     E ’l ciel di lungo empiendo alto muggito,
     Fanno arricciare à gli Argonauti il pelo.
     Poi corron contra il giovinetto ardito,
     Per torlo sù le corna, e darlo al cielo.
     Gli attende il Greco, e dice i versi intanto,
     E getta contra lor l’herba, e l’incanto.