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Pagina:Ovidio - Le metamorfosi.djvu/243

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E voi tre volti, ch’un sol corpo havete
     Ne la triforme Dea, non meno invoco.
     E voi, che con la Luna aurea splendete
     Lumi del ciel dopo il diurno foco,
     À l’humil prego mio favor porgete,
     Che cercar possa ogni opportuno loco,
     Si ch’ io ritrovi ogni radice, et herba,
     Che può rendere à l’huom l’etade acerba.

Porgi à noi santa Dea propitio il braccio
     Tu, ch’à noi maghi e l’herbe, e l’arte insegni,
     Si che per l’alta impresa, c’hora abbraccio,
     Possa cercare i necessarij regni.
     Io pur co’l tuo favor le nubi scaccio
     Dal cielo, e scopro i suoi siderei segni.
     Co’l tuo favor (quando il contrario adopro)
     Tutti i lumi del ciel co i nembi copro.

Nel mar (s’io voglio) hor placo, hor rompo l’onde,
     Fò la terra mugghiar, tremare i monti,
     E facendo stupir le stesse sponde,
     Tornar fo i fiumi in sù ne’ proprij fonti.
     S’io chiamo Borea in aria, ei mi risponde,
     E gli Austri, e gli Euri al mio voler son pronti:
     E quando l’arte mia loro è contraria,
     Dal ciel gli scaccia, e fa tranquilla l’aria.

L’ombra fo da sepolcri uscir sotterra:
     E tal l’incanto mio forz’ hà, che puote
     Luna tirar te co’l tuo carro in terra,
     Se ben del rame il suon l’aria percote.
     Onde mi cercan gli huomini far guerra,
     Per impedir le mie possenti note,
     Le note, onde pur dianzi tanto fei,
     Ch’ottenni tutti in Colco i voti miei.

Co i versi, e co’l favor, che mi porgeste,
     Fei, ch’à Giason non nocque il foco, e’l toro,
     E quelle, che di terra armate teste
     Usciro, uccider fei tutte fra loro.
     Fei, che ’l sonno abbassò l’altere creste
     Al drago, e diedi al Greco il vello, e l’oro,
     Et hor co i versi, e co’l favor, ch’io chiamo,
     Spero venire à fin di quel, ch’io bramo.

E tosto io l’otterrò, che chiaro veggio
     Propitio al desir mio l’ardor soprano,
     E che l’etheree stelle à quel, ch’io chieggio,
     Non han mostrato il lor splendore in vano,
     Poi che scorgo dal ciel venir quel seggio,
     Che puote il corpo mio condur lontano.
     Un carro nel formar di questi accenti
     Tirato in giù venia da due serpenti.

Con larghe rote in terra il carro scende
     Dal mondo glorioso de le stelle.
     Medea di novo al ciel gratie ne rende,
     Alzando gli occhi à l’alme elette, e belle.
     E poi lieta, e sicura il carro ascende,
     Allenta il fren, percote l’aurea pelle
     Con la sferza opportuna, ch’ivi trova,
     E fa de l’ali lor la nota prova.

Al notturno maggior di Delia lume
     Per la Thessaglia fertile, e gioconda
     Fa battere al dragon l’aurate piume,
     E tutta la trascorre, e la circonda.
     Et hor prende dal monte, et hor dal fiume
     L’herba, che brama, e in quelle parti abonda,
     De le quai con la barba altra n’elice,
     Altra ne taglia, e vuol senza radice.

E ’n Tempe, e ’n Pindo, e ’n Ossa il carro feo
     Scender, dove de l’herbe in copia colse,
     E dopo verso Anfriso, et Enipeo,
     E verso gli altri fiumi il carro volse.
     Non lasciò immune Sperchio, ne Peneo,
     E tante herbe trovò, quante ne volse:
     E poi lasciando adietro il fiume, e ’l monte,
     Ver l’albergo d’Eson drizzò la fronte.

Quando l’herbe opportune ella hebbe colte,
     Secondo l’arte sua comanda, e vuole,
     E che l’hebbe su’l carro in un raccolte
     Con le propitie, e debite parole,
     L’ombre del basso mondo oscure, e folte
     L’havean nove fiate ascoso il Sole,
     E l’herbe, e i fiori, ond’era il carro adorno,
     Fer questa maraviglia il nono giorno.