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Soverchio ardore intorno al cor raccolto
Arde, e combatte il corpo interno, e ’l core,
E ne dà inditio manifesto il volto,
E l’acceso color, ch’appar di fuore.
La lingua è grossa, et aspra, e ’l dir non sciolto,
E ’l foco sempre in lui si fà maggiore,
Che l’aura australe, e ria, ch’in favor prende,
Non gli dà refrigerio, ma l’accende.
Tanto l’ardore al fin rinforza, e cresce,
Che getta il panno, e ’l lin, che ’l tien coperto,
Poi l’annoian le piume, e del letto esce,
E giace sù la terra al cielo aperto,
Ne molto in terra stà, che gli rincresce
E vuol gire à trovar fresco più certo,
Che ’l terreo humor non fe il suo caldo meno,
Ma ben scaldò co’l foco egli il terreno.
Un cerca il fonte, un’ altro cerca il fiume,
Per rimedio del caldo, e de la sete;
Ma perde alcun pria, che vi giunga il lume,
E dà le membra à l’ultima quiete.
Altri vi giunge, e mentre ber presume
La sua salute, bee l’onda di Lethe:
Che ’l troppo freddo, e non propitio rio
Sparge nel suo pensier l’eterno oblio.
Spinto nel fiume ignudo aItri si getta,
Da l’ardor, da la sete, e da la rabbia,
Dove si muore, e l’onde agli altri infetta,
E toglie l’acque infami à l’altrui labbia.
Tal che non resta di sospetto netta
Ne la casa, ne l’acqua, ne la sabbia:
E sono in tante parti i morti sparsi,
Che non v’è luogo mondo ove ritrarsi.
Se l’amicitia, ò ’l sangue, ò l’or richiede
Qualchun, che d’Esculapio imita l’arte,
Et ei parla à l’infermo, e ’l tocca, e ’l vede,
Col medesimo mal da lui si parte.
E quanto serve alcun con maggior fede,
Tanto più tosto vien del morbo in parte.
Onde fugge ciascun star loro appresso,
E cerca più, che può, salvar se stesso.
Ciascuno al proprio ben cerca consiglio:
Sangue, amicitia, ò imperio alcun non stringe.
Il certo, e inevitabile periglio
Fà conoscer quel, ch’ama, e quel, che finge.
Lascia il servo, il padrone, il padre il figlio,
Tal che molti il disagio al fin ne spinge.
Prova ognun varij antidoti, e d’usare
Cibi acri, odori esperti, et herbe amare.
Non han più tanto à cor gl’ ingordi avari
L’utile, e cercan sol fuggir quel danno:
Non han pegni si nobili, e si cari,
Che no’l disprezzin, se sospetto n’ hanno.
S’ un morto hà in dito pretiosi, e rari
Gemmati anelli, e poi gli heredi il sanno,
Lascian, ch’altri gli toglia, e n’habbia cura,
Se tanto folle è alcun, che s’assicura.
Entra per ogni casa il morbo, e strugge
Di gente moltitudine infinita,
Che l’aura, che per forza il petto sugge,
Gli attosca, e chiama à l’ultima partita.
Tal ch’ogn’un’ odia il proprio albergo, e ’l fugge,
Per più d’un huom, che vi lasciò la vita.
E, perche la cagion non sanno, ogn’uno
Dà la colpa à l’albergo , e non à Giuno.
Danno à l’animo tristo ogni contento,
Ogni piacer, che san trovar più grato,
E, per far gratia al cor di meglior vento,
Ne vanno al monte, à l’aere più purgato:
Ma ne trovan per tutto e cento, e cento
Morti nel pian, nel monte, e in ogni lato.
Per tutto Atropo à l’huom tronca lo stame,
Ne luogo san trovar, se non infame.
Abbandonato il divin culto, e ’l tempio
Resta, e sol l’ hà in custodia Apollo, e Giove,
Benche diventa pio tal’hor qualch’empio,
E corre à Dio per far l’ultime prove,
E mentre cerca di salvar lo scempio
Del figlio il padre, e le sue preci move,
Nel mezzo del pregar diventa muto,
E dà innanzi à l’altar lo spirto à Pluto.